MEDITAZIONE SU QOÈLET
Per un’identità che resista alla morte

La vita di ogni uomo è un’avventura senza grandi speranze e lo è perché noi viviamo per lasciare un segno della nostra presenza, mentre sarà la  nostra assenza a restare.

Ecco perché non è decisivo contrapporre un’esperienza di vita ad un’altra, un radicamento storico e culturale ad un radicamento diverso, un percorso di ricerca ad un percorso alternativo. Ciascuno va con le proprie forze e per la propria strada verso la propria fine. Se qualcosa si conserva, non sarà, in ultimo, una verità conquistata a fatica e neppure la gloria di una scelta vincente o la pena di una cocente sconfitta, ma l’invisibile traccia di tanti sentieri interrotti.

«Vanità delle vanità, tutto è vanità»: dice Qoèlet e sarebbe la sua prima (1, 1) e ultima parola (12, 8), se egli non aprisse nel muro del suo realismo nihilista una fenditura che lascia intravedere sviluppi inespressi: «Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza» (12, 1).

Il sasso nello stagno.

«Ricordati del tuo creatore» a fronte della vanità di ogni tuo sforzo per dare senso alla vita: con la ricchezza e col benessere, col potere e con la gloria, con la sapienza o col piacere, con la cura e con la mancanza di cura, e ricordatene «nella tua giovinezza».

Nulla di meno ci dice Qoèlet, ma anche nulla di più. Qoèlet non si spinge oltre. Getta il sasso e ritira la mano. Ma l’onda provocata dal suo lancio nelle acque per nulla tranquille della teologia ebraico-cristiana è giunta fino a noi e a noi spetta tentare di proseguire quel cammino che egli ha appena voluto e saputo indicare.

Come possiamo, dunque, interpretare Qoèlet? Di certo non possiamo interpretarlo sulla scorta di quanto ci suggerisce il suo tardo redattore, quando, per inserirlo nel canone, gli fa dire: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è tutto» (12, 13). Non è al Dio della legge mosaica che Qoèlet rimanda il suo interlocutore, o almeno che lo rimanda direttamente, e neanche alla severità del suo giudizio (12, 14). Ma al Dio creatore e non in quanto anonima potenza generatrice, ma come libertà edificatrice di un tu, come Assoluto che si fa Relativo.

Potenza della parola, che mai va tradita. «Ricordarsi» non è ragionare per costruire un concetto filosofico di Dio. «Ricordarsi del proprio creatore» non è occasione per fondare una teologia della creazione. Ricordarsi è compiere un percorso esistenziale verso la fonte della propria vita e scoprirla come alterità generosa, come insperata sorgente di speranza e di vigore.

Ma il versetto di Qoèlet, questo versetto lasciato come sospeso sul precipizio di immagini tragiche e bellissime, che segnano l’inarrestabile franare della vita verso la morte e del canto verso il silenzio (12, 2-7), non chiude lì. Aggiunge: «nella tua giovinezza» e questa aggiunta dà forza al ricordo e non lo lascia decadere a nostalgico rimpianto per un tempo passato e lontano. Lo qualifica come principio di energia vitale che accompagna e colora positivamente ogni giornata.

Ecco perché siamo indotti a pensare che Qoèlet non abbia solo nelle orecchie i passi dei Salmi e dei profeti che esaltano la potenza creatrice di Dio, ma i racconti dell’origine, destinati a confluire nei primi capitoli del Genesi. È in questi racconti, infatti, che Qoèlet può aver attinto quell’immagine di Dio, come possibile interlocutore di un tu umano fragile e insostituibile al tempo stesso, che egli evoca per il suo lettore, invitandolo a tenerne conto fin dall’uscita dall’infanzia e dall’ingresso nella prima maturità, la giovinezza, appunto.

Le origini come aperture.

Sono convinto che questa sia una delle chiavi di lettura che Qoèlet ci offre per aiutarci a capire il suo pensiero, ma ancor più che questa è la direzione in cui dobbiamo lavorare se vogliamo capire noi stessi. Se è chiarissimo, infatti, che «Dio sta in cielo e noi siamo in terra» (5, 1) e che da questo punto di vista ontologicamente statico la sua distanza da noi è tanto incolmabile da destinarci alla più totale vanità, è anche chiaro che come creatore Egli viene a trovarsi con noi in un rapporto totalmente nuovo e dinamico, un rapporto di dialogo salvifico che i testi genesiaci non si limitano a descrivere, ma contribuiscono a costruire, mettendoci in condizione di pensarlo e di perseguirlo.

Siamo al nodo della nostra riflessione che sui racconti biblici dell’origine deve necessariamente fare perno e farlo non come modelli di fondazione, ma come esempi di relazione. Il che, dal punto di vista della loro metodologia di lettura, non comporta sostanziali novità, mentre dal punto di vista della loro interpetazione ci permette di coglierne aspetti nuovi ed essenziali.

Tutti sappiamo infatti che i primi capitoli del Genesi sono delle belle e complesse narrazioni mitiche, tese ad esaltare la potenza creatrice di Dio. Non tutti ci rendiamo conto, però, che essi non si limitano a descrivere simbolicamente l’origine della vita e dell’ordine cosmico, ma mettono in scena come tale origine prende forma all’interno di un processo di relazione retto da una doppia dinamica di avvicinamento e di allontanamento. Si tratta dello stesso processo che vediamo rappresentato nelle vicende dell’Esodo, dove Dio si rivela e si nasconde, e dove l’uomo ora fa propria ed ora rinnega o fraintende tale rivelazione; di un processo che dall’interno struttura e dinamizza ogni tipo di umana relazione con Dio tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento.

È così che i racconti d’origine diventano anche dei racconti di apertura, vale a dire non tanto la descrizione di uno stato iniziale inopinatamente perduto, quanto la narrazione del primo atto di una storia che pone i presupposti del suo stesso divenire e che è già in azione fin dalla sua prima parola: Beresit, «In principio». Ed è così che diventa lecito, anzi doveroso, interrogarsi sul significato simbolico che i primi versetti del racconto Jahvista e di quello Sacerdotale hanno nei confronti non solo dell’essere creato ma anche del “Più-che-essere” creatore.

Sappiamo, infatti, che è saggiamente sconsigliato indagare su Dio in sé, sulla sua condizione assoluta, prima e indipendente dalla creazione. Ma sappiamo anche che ogni parola della Scrittura ha più di settanta sensi e che nelle pieghe delle sue righe iniziali, là dove recita: «La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso» (1, 2), «Quando il Signore fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba era spuntata perché il Signore Dio non avva fatto povere sulla terra e nessuno lavorava il suolo» (2, 4b -5), è possibile cogliere uno stato di solitudine e di sconforto, che forse non riguarda Dio nella sua chiusa autosufficienza, ma certo bene lo individua nella sua libera volontà di relazione.

Ora chi oserebbe negare che è dal superamento di questo vuoto originario che comincia la storia biblica di Dio, prima di quella dell’uomo? Chi potrebbe sostenere che l’esperienza della vanità e della morte, che così profondamente ferisce Qoèlet, non è stata anticipata e vinta dall’esperienza del suo Dio nei confronti di un caos non ancora ordinato e di un deserto non ancora abitato?

Non oltre. Ma certo noi possiamo sperare di sfuggire alla mancanza di senso della nostra vita ricordandoci del nostro creatore nei giorni della nostra giovinezza, solo perché Lui per primo è sfuggito al tohu wahohu, all’«informe deserto», all’ «abisso vuoto» (1, 2a), matrice di ogni nulla, ricordandosi delle sue creature, compiendo l’opera dei sette giorni e mettendosi a fronte un essere fatto «a sua immagine e somiglianza», dialetticamente costituito in esseri distinti (1, 27), ma anche capace di stargli a fronte e persino di ribellarsi (3, 1 e ss.).

Farsi stranieri per diventare sé stessi.

Da questo punto di vista i racconti di creazione sono tutto un tessuto di relazioni, a cominciare da Dio che entra in scena come colui che crea vita e produce ordine, pone legami e distinzioni, apre spazi in cui muoversi e tempi entro i quali articolare la propria azione, alita soffi che diventano parole, e si fa libero progettatore di alterità da interpellare («Adamo dove sei?» 3, 8). L’assolutamente relativo è Lui ben prima dell’uomo, che è tale solo di riflesso, ed è ancora Lui a spingere l’uomo, che ha creato prossimo e più vicino possibile, ad allontanarsi e a salvarsi da ogni eccesso di identificazione.

S’interpreti come si vuole il terzo capitolo del Genesi, per lo più conosciuto come racconto della caduta e della cacciata. Certo è con esso che lo Jahvista mette in scena il contrastato farsi adulto dell’uomo e, cosa che il Sacerdotale presenta come un dono gratuito (1, 26), il suo definirsi ad immagine e somiglianza di Dio. L’uomo si fa simile a Dio nella capacità di conoscenza, ma diversamente da Lui resta sottomesso alla morte e al dolore e tale diversità lo salva dalla regressione (farsi come Dio prima della creazione) e lo apre alla capacità di realizzarsi non con la costruzione di babeliche torri, ma attraverso la moltiplicazione delle lingue e dei popoli (11, 1-9).

Del resto, nel momento in cui prende coscienza della possibilità di perseguire l’uguaglianza con Dio, l’uomo si avvicina al vertice del proprio processo identitario e lo fallisce. Sperimenta cioè che tale identità non può essere raggiunta, né lungo la via, sognata da Adamo e dai babelici, dell’appropriazione edipica, dell’annullamento della propria creaturalità nel creatore, che vedrebbe così frustrato il suo progetto di relazione, né lungo quella tentata dagli israeliti nel deserto: la fissazione e l’oggettivazione idolatrica del rapporto dialogico tra Dio e il suo popolo (Esodo 32).

Non hanno matrici diverse il peccato dell’origine e il divieto di farsi immagine del Signore. Si collocano in quell’unica dinamica di avvicinamento e di allontanamento che caratterizza tutta la storia e la spiritualità biblica. Avvicinamento di Dio all’uomo e corrispettiva messa a distanza dell’uomo da Lui, affinché, trovandosi a faccia a faccia, il fuoco dell’Uno non consumi l’altro e questi non perda la capacità di farglisi vicino lungo un proprio, adeguato, percorso di formazione.

Il Totalmente Altro, l’Assolutamente Relativo, l’Ineffabile, che si fa nella sua rivelazione naturale e storica supremamente Affabile, mentre si difende da ogni tentativo di assimilazione violenta o subdola, tesa a negarne l’intima vocazione al dialogo, chiede all’uomo un analogo sforzo di difesa delle proprie capacità di relazione, di valorizzazione della propria apertura all’altro, di tutela del proprio mistero identitario attraverso la sua dissipazione generosa.

È solo uscendo dalla propria chiusa assolutezza che Dio trova di fronte a sé un mondo che può riconoscerlo Signore; è solo nell’alleanza con un popolo che acquista un nome ed una titolarità salvifica, in grado di risuonare tra i popoli (Deutero e Trito-Isaia); è solo rivelandosi nella carne di un «Nuovo Adamo», che «pur essendo nella forma di Dio, non considerò lo stato di eguaglianza con Lui come preda, ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo» (Filippesi 2, 6-7), che può presentarsi come Amore capace di vincere la morte.

È solo «ricordandoci di un tale Dio» che noi possiamo sperare di far entrare la nostra qoèletica esperienza di vita nel canone dei libri santi, quelli che conservano i nomi custoditi da Dio a propria consolazione. Ricordarcene come Lui ci chiede. Ricordarlo andandogli incontro negli altri, diventando così stranieri a noi stessi da obbligarlo ad essere Lui a restituirci la nostra identità nel momento stesso in cui ci fa suoi: 

                    Venite voi
                    che senza riconoscermi
                    avete avuto cura di me
                    per simpatia o semplice attenzione.
                    Venite voi
                    di cui almeno questo
                    si può dire di bene.
                    Venite 
                    e, riconoscendomi,
                    riconoscetevi.                                   (Matteo 25, 34-40)

Aldo Bodrato


 
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