INTERVISTA A NANNI SALIO
Scienza, scienziati, società: quale libertà?

La scienza sale spesso alla ribalta dell’attualità, ma sempre più come oggetto di discussione. A Nanni Salio, fisico dell’Università di Torino, studioso di problemi di ecologia e di pace, che ha molto riflettuto sulle questioni controverse, poniamo alcune domande.

D - In che cosa consiste il problema delle questioni controverse nelle scienze?

R - Cominciai a rendermene conto negli anni ’80, quando, sulla questione nucleare, sia civile che militare, esperti scienziati sostenevano tesi opposte. Ero stato educato, come tutti, all’idea di una cultura scientifica come cultura delle certezze. Ricordo uno scontro in tv tra Amaldi e Mattioli: il primo finì per usare un argomento poco... scientifico, perdendo le staffe e dando dell’ignorante al secondo. Oggi le questioni controverse sono aumentate: uranio impoverito, mucca pazza, organismi geneticamente modificati. Ultimamente è venuto l’appello di mille e più scienziati, con due premi Nobel, per la libertà scientifica, che sarebbe minacciata. Ci sono dibattiti giornalistici e storici, interventi delle scienze sociologiche.

D - Perché queste questioni sono controverse?

R - Sono controverse perché noi agiamo in uno stato di ignoranza. L’ignoranza cresce più della conoscenza, perché più sappiamo, più domande ci facciamo. Non basta rivendicare libertà per la scienza. Bisognerebbe parlare di scienziati, non astrattamente di scienza, e fare piuttosto una sociologia degli scienziati. Essi sono normalissimi esseri umani, coi loro interessi e difetti. Ci sono anche quelli che falsificano i dati. Si veda il libro di Paul Rabinow “Fare scienza oggi” (Feltrinelli, Milano 1999). Se sono competenti, lo sono nel campo ristretto dei loro esperimenti. Ma le grandi questioni controverse sono tutte problemi di scienza-tecnologia-società. Hanno questi tre aspetti, non uno solo. E su problemi di questo tipo nessuno può pretendere di essere esperto. Passando dal laboratorio all’applicazione nella società, si compie un esperimento diverso, su larga scala, in campo aperto, del quale nessuno conosce a priori gli esiti e il più delle volte nessuno si prende la briga di verificarli. Per fare un solo esempio: il cambiamento climatico globale. Su questi problemi noi lavoriamo in condizioni di ignoranza.

D - Se è così, sorgono davvero domande delicate, anche di ordine etico.

R - Certo. C’è un’etica e una pedagogia delle questioni controverse. Esse possono dar luogo a conseguenze non reversibili. Ne tratta il libro di Ulrich Bech “La Società del rischio” (Carocci, Roma 2000). Aumentando le conoscenze aumentano i rischi di questo genere. Il principio etico a questo riguardo (oggi si parla di principio di precauzione) consiste nell’evitare conseguenze irreversibili. Bisogna restare capaci di tornare indietro, come in montagna si deve evitare di restare “incrodati”, senza potere né salire né scendere. Sotto il profilo pedagogico, dobbiamo educarci a diventare consapevoli della nostra condizione di ignoranza, in ogni questione complessa e socialmente rilevante. 

D - Tu metti in rapporto questa problematica con la nonviolenza. In quale senso?

R - La nonviolenza è l’antidoto ad ogni fondamentalismo, anche a quello scientifico. Essa insegna ad avvicinarsi in modo lento, omeostatico, ad una nuova conoscenza, senza distruggere quel tanto di verità che c’è nelle differenti conoscenze e convinzioni. Riguardo a Gandhi, Pontara ha parlato di «fallibilismo», cioè di continua correggibilità, e di verità come continua ricerca. Questo atteggiamento dovrebbe essere caratteristico delle scienze, oggi. In particolare, va tenuto conto del grado di complessità di ogni questione sociale. La nonviolenza è una cultura laica, che esercita il rispetto di ogni verità. Su questa base, anche le diverse religioni oggi, più spesso di prima, sanno mettersi in vero dialogo.

Enrico Peyretti (a cura di)


 
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