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Gianavello |
Non si può dire che il nome di Gianavello sia famoso, e neanche conosciuto, al di fuori del mondo valdese cui appartiene. Anch’io, nella mia ignoranza, per anni ho solo associato questo nome a quello di una via di Luserna che intravedevo salendo a Torre Pellice. Finché il Teatro di Angrogna non mi ha dato modo di conoscere un po’ meglio il “leone di Rorà”. Benvenuto quindi il libretto di Bruna Peyrot, tascabile nella dimensione ma non nel contenuto, della collana «Cinquantapagine» della Claudiana. Benché le pagine siano sessantaquattro, l’autrice è riuscita a concentrarvi l’essenziale della storia, delle fonti e del mito di questo eroe paysan. Una accurata bibliografia, che distingue le fonti primarie e la saggistica contemporanea, può ben soddisfare l’approfondimento da parte del lettore.
In una scena del film Salvate il soldato Ryan un marine americano, appena sbarcato su una spiaggia di Normandia, protetto da una roccia, prende la mira verso un bunker tedesco, mentre le sue labbra ripetono il Salmo 143: “Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia”. Quando raccontavo questa scena, un mio amico (di nome Pons) non ebbe esitazioni: quel soldato era certamente protestante. Mi è tornato in mente questo, proprio mentre ripercorrevo nelle pagine di Bruna Peyrot quella “parabola di resistenza all’oppressione e lotta per la libertà di coscienza” che costituisce (sono le parole che aprono il libro) la storia valdese. C’è un abisso tra l’esaltazione militarista delle gesta di guerra in sé, e il rendere il giusto onore a chi prende le armi, abbandonando a malincuore la sua vita contadina, in difesa della sua comunità e della libertà di coscienza. Gianavello era un comandante militare. Il suo nome è legato alla resistenza di fronte al massacro dell’aprile 1655 (le Pasque Piemontesi), alla successiva riscossa nel maggio, dopo il breve esilio nel Queyras, con la guerriglia a fianco di Bartolomeo Jahier, che condusse alla precaria pace del 18 agosto. Di fronte al continuare della persecuzione, Gianavello scelse tre anni dopo di nuovo la via della lotta armata, a cui la Corte sabauda di Torino rispondeva dichiarandolo “bandito”, condannandolo a morte e ponendo sulla sua testa taglie sempre più elevate. Bruna Peyrot cita dalla monografia di Jean Jalla del 1917 (terzo centenario della nascita di Gianavello) una ingiunzione del 1661 alle comunità «della valle di Luserna [Val Pellice], massime a quelli della Torre e di San Giovanni, di non più ricettare li sudetti banditi famosi et altri ... anzi di dover dare campana a martello subito che detti facinorosi compariranno, per captivarli ... vivi o morti, sotto pena di scudi tre mila d’oro». Poi, alla minaccia si accosta l’allettamento: «promettiamo in fede e parola di Principe a chiunque presenterà alla giustizia li sovranominati ... la somma di ducatoni trecento». Non sono in grado di fare un confronto tra la pena di tremila scudi e il premio di trecento ducatoni, ma questi termini usati nel Seicento – banditi, facinorosi, vivi o morti – evocano ricordi più recenti e aiutano a capire su quali radici antiche si fondi il grande contributo delle valli eretiche alla lotta partigiana. Nel febbraio 1664 la Patente di grazia di Carlo Emanuele II chiude gli anni dello scontro armato. Il ritorno alla normalità ha un prezzo: la conferma della condanna dei “banditi” e il loro esilio. Gianavello abbandona la sua famiglia e la sua terra, per essere accolto dalla città di Ginevra. Non per questo dimentica le sue valli, dove anzi pare che tornasse qualche volta, clandestinamente. La sua osteria di Ginevra diventa un punto di riferimento, un centro informativo, un luogo di rifugio per i valdesi di ogni provenienza. A Ginevra, in vista del Glorioso Rimpatrio del 1689, Gianavello compose le Istruzioni militari, un documento che, a dispetto del titolo, va al di là dei consigli di tattica di guerriglia ma investe i grandi temi della fede, del peccato, della moralità individuale. Il protestantesimo non santifica eroi, ci viene ricordato fin dalla prima pagina. I fatti individuali restano immersi nella coralità della vicenda di un popolo, e il mito (che non è leggenda) si alimenta nell’intreccio di biografia individuale e storia collettiva. Per questo, pensando a Giosuè Gianavello che muore nel 1690 a Ginevra, un anno dopo il Rimpatrio che a lui è rimasto precluso, ma a cui ha contribuito con una vita intera, si pensa immediatamente a Mosè che osserva da lontano la terra promessa che il suo popolo raggiungerà senza di lui. Ma forse sto esagerando: Gianavello resta una figura centrale nella storia di quel popolo di uomini e donne che, in una denuncia del 1650 dell’uditore giudiziario Marco Antonio Gastaldo, venivano definiti “disobbedientissimi”. E per questo, a me, simpaticissimi. Gianfranco Accattino • Bruna Peyrot, Giosuè Gianavello, Claudiana Editrice, 2001, pagg. 64, L. 5.000. |