Continuiamo la pubblicazione dei materiali che ci sono arrivati per il XXX anniversario del foglio.
Il primo è un intervento di Giorgio Calcagno, giornalista della Stampa, scrittore e amico della nostra rivista fin dalle origini; segue la poesia di una lettrice, Claudia Caretto.
Che cosa significa scrivere? ci chiede il foglio.Ottima domanda, che parte da chi alla scrittura crede da trent’anni, per affidarle i pensieri decisivi, quelli di cui abbiamo sempre più bisogno, in una società sempre meglio pianificata per la loro eliminazione.
Ma la domanda contiene già in sé, inconsapevolmente - o consapevolmente? gli amici del
foglio sanno il valore delle parole che usano - la risposta. E la contiene nella stessa scelta delle parole usate, prima del punto interrogativo: il solo elemento non necessario, in tutta la frase. Rovesciamo l’ordine delle tre parole, il senso ci apparirà più chiaro.
La prima parola diventa “scrivere”: che, collocata in fondo, può sembrare la più importante, il punto d’arrivo; mentre in realtà la più accessoria, il punto di partenza, anche se strumentalmente indispensabile. Scrivere è usare la penna, o la matita, o qualsiasi altro mezzo di registrazione verbale; si può arrivare alla Lettera 22, al telex, all’alfabeto Morse del telegramma; con minor sicurezza, alla presuntuosa labilità del computer. Tutti mezzi subordinati a un unico scopo: fissare sulla pagina parole che altrimenti andrebbero perse nell’aria, impressioni meno effimere, dati, ricordi, informazioni che si vogliono sottrarre alla provvisorietà del verba volant.
Ma scrivere, soprattutto, come ci avverte la seconda parola della domanda, l’unica che non deve cambiare posizione, “significa”: cioè, spiega l’etimologia, fa segno, signum facit. Significare, avverte in modo esplicito lo Zingarelli, vale “esprimere pensieri, sentimenti, idee e simili, mediante il linguaggio, scritto o orale, o mediante cenni, gesti o simili”.
Si può significare, certo, senza scrivere; con il linguaggio orale o dei gesti o dei cenni onorato anche dal dizionario. Il personaggio di Fellini che infila l’avambraccio sinistro nel braccio destro piegato all’insù gridando “Lavoratori!” agli operai del cantiere stradale non ha bisogno di alfabeto per fissare nell’immaginario collettivo il più memorabile fotogramma dei Vitelloni. Il cartello che rappresenta un bambino con lo zainetto sulle spalle può risparmiare la scrittura per chiedere all’automobilista di rallentare davanti all’uscita di una scuola. Da migliaia di anni l’arte del mimo consente di raccontare storie anche molto elaborate superando la diversità delle lingue, perché tutte le spiegazioni sono risolte dal lessico universale dei gesti. EGesù ha avuto il genio di tracciare con un dito le sue sole parole scritte sulla sabbia perché i discepoli sapessero di doverle interpretare nella mutevolezza viva della storia anziché nella rigidità mortuaria della legge.
Ma da quando lo scriba della pianura mesopotamica ha affidato alla tavoletta sumerica le registrazioni del dare e dell'avere nei rapporti economici, lo scrivere è diventato il luogo insostituibile della evidenza, ciò che non può essere controvertito, la garanzia della massima rispondenza fra la parola e la cosa. Nella civiltà dei segni, la scrittura è il segno più certificante, quello che non consente alterazioni da parte di chi vorrebbe truccare i dadi.
E sulla scrittura, da leggere intus, da interpretare sempre, da non contraffare mai, si fonda la storia dell’uomo, civile, morale, religiosa: a partire dalla Scrittura in assoluto, quella che dà vita alla civiltà ebraico-cristiana.
Rimane, nell’ordine rovesciato della domanda, la terza parola, quella che il foglio colloca per
prima, perché prima per importanza è, anche se ragioni di logica chiedono di ascoltarla per ultima. Il “che cosa”, il quid interrogativo, il quod senza interrogazione del nostro esemplare latino, riunito, nei due significati, dal what inglese; il complemento oggetto a cui approda ogni verbo del nostro vocabolario transitivo, il senso ultimo che deve sprigionare dal segno, perché ogni significante trovi il suo significato.
Nel mondo dei segni in cui viviamo, spesso casuali, fragili, in qualche caso ingannatori, e, sui
display dei più avanzati mass-media, spesso fraudolenti - si pensi alle trappole della pubblicità, o agli illusori segnali della televisione - la scrittura è il mezzo che più di ogni altro mira diritto al “che cosa”.Non si può significare senza significato.E non si dà significato se non va alla ricerca di senso.
La nostra società, si dice, ha smarrito i valori. Forse. Ma ha smarrito, soprattutto, il bisogno di dare un senso alla vita. Il quid o il quod significato dalla scrittura è, interrogativamente, quella ricerca; positivamente, quel senso.
Uno scrivere che non significhi, e non significhi che cosa, è un tradimento.C’è una responsabilità, da parte di chi scrive, che non gli permette di usare impunemente i segni, se non li collega alla ricerca dei sensi. E allora sarà chiaro perché, quando ci viene domandato che cosa significa scrivere, non sentiamo la necessità di aggiungere il punto interrogativo.
Giorgio Calcagno
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