ISRAELE-PALESTINA
Due popoli, due errori
È tremendo il problema Israele-Palestina. Si tratta di due rispettive ragioni e diritti, ed anche due errori; una comunanza di dolore e di colpe, ed una eccezionale opportunità. 

Lo sbaglio di Israele (non solo comprensibile, ma apparso allora come cosa necessaria, unica garanzia) fu fare lo stato. Uno stato sovrano, cioè insubordinato all’umanità, è di natura sua pericoloso a sé e agli altri, come i matti. Lo stato come lo conosciamo fino ad oggi è belligeno (Papisca). Infatti, l’istituzione guerra (non dico la violenza spontanea, non istituzionalizzata) è nata con lo stato, verso il 5.000 a.C. (Toraldo di Francia), ed è ancora una sua colonna portante, nonostante il nuovo (ma finora convivente col vecchio) diritto internazionale di pace nato nel 1945 con la Carta dell’Onu. Detentore della «violenza legittima» (Weber) lo stato è pur sempre meglio della libera violenza, o «libertà selvaggia» (Kant), ma, fin quando resta sovrano, cioè assoluto, è esso stesso generatore di violenza. 

E sbaglio è stato fare là lo stato di Israele: si comprende bene la ragione, ma ciò è apparso e tuttora appare agli arabi l’ultimo colonialismo europeo in terra araba, in continuazione con quello inglese, del quale ha anche ereditato alcuni metodi (per es. distruzione delle case come provvedimento di polizia), pur essendo state le origini di Israele in conflitto con esso. Il colonialismo subìto è l’immenso trauma della cultura araba, la grande ferita che inferocisce l’islam, come un animale ferito, è qui c’è una bella responsabilità della superbia europea nella pericolosità attuale dell’islam. Gli insediamenti nei territori occupati confermano ed esaltano questa impressione nei palestinesi, e sono oggettivamente atto coloniale, come sa chiunque li ha visti coi propri occhi. (Impressionante per esattezza e drammaticità bilaterale il reportage-fumetto su Hebron, di Joe Sacco, in Internazionale, 15-21 giugno). Ha scritto Sofri su Repubblica, in modo ancora più duro: «La costruzione dello stato di Israele avvenne come una colonizzazione della Palestina ... La colonizzazione crebbe a spese degli abitanti arabi. Si aprì un conto di guerra e di odio ... Gli ebrei israeliani più lucidi e capaci di riconoscere le ragioni altrui sanno che occorre rinunciare agli insediamenti e ritornare ai confini del 1967». Esatto! Questo è il punto che io sento molto, il nodo storico. Ma una parte almeno dei coloni ricatta violentemente 
tutti i governi israeliani, i quali – tutti – hanno continuato ad estendere gli insediamenti coloniali. Sharon è il più lontano da quella rinuncia necessaria.

Lo stato di Israele non difende gli ebrei, come speravano con pieno diritto. Li mette in pericolo. Nonostante la shoah, oggi può difendere meglio gli ebrei la cultura e la religione ebraica, che non lo stato. Il contributo ebraico alla democrazia e alla civiltà è la loro garanzia migliore. Certo, anche il diritto rafforzato dalla legge statale, ma non di uno stato etnico.

Ma c’è un grande sbaglio anche dei Palestinesi, che non hanno potuto-saputo capire in tempo la eccezionale opportunità che hanno avuta (che hanno ancora?): fare della Palestina una felice Andalusia (felice nel Medioevo), una convivenza di culture, religioni, civiltà; l’Andalusia felix è stata spezzata dall’espansionismo della reconquista cristiana integralista, intollerante, autocentrata, assolutista, de los reyes católicos, che hanno espulso ebrei ed arabi, per fare uno stato religioso-etnico puro e solitario. Ebrei e arabi potrebbero oggi ricordare insieme quella esperienza e quella violenza sofferta (a Granada ogni 2 gennaio la comunità musulmana la ricorda col Llanto por Granada, sul Paseo del Los Tristes), sperabilmente perdonarla ai cristiani, e costruire una Andalusia post-moderna, porta del futuro per loro e per altri popoli in difficile convivenza. I cristiani dovrebbero aiutarli per farsi perdonare la reconquista.

Come forma statale la casa ebraico-palestinese avrebbe dovuto essere inter-etnica, non stato ebraico, non stato arabo. Un esempio alle nazioni della nuova Europa per buona parte pacificata, ma di nuovo oggi tentata dalla follia del 1914. Siamo ancora in tempo? Ebrei ed arabi dovrebbero rinunciare alla etnicità dello stato. Ne sono capaci? Almeno da parte ebraica ci sono voci profetiche in tal senso (Martin Buber, fino dal 1921). Come dice oggi Amos Luzzatto: né religione strumento della politica, né viceversa.

I Palestinesi avrebbero trovato, o potrebbero trovare, in una tale soluzione anche il loro riscatto nobile nei confronti degli altri popoli arabi, che si dicono solidali con loro a parole, ma in fondo li disprezzano, non li accolgono davvero, forse li invidiano, o li temono e li giudicano, perché sono il popolo arabo e musulmano più laico (finora! Vedi l’ammonimento del compianto Feisal Hussein, riferito su il foglio, n. 277, p. 2). Tra loro c’è l’Islam e c’è il cristianesimo (ricordo con emozione il pellegrinaggio popolare e la grande messa in arabo sul monte Tabor, proprio nella festa della Trasfigurazione, il 6 agosto del ’93; ascoltavo i nostri stessi canti liturgici con parole arabe, nella lingua dei nostri immigrati a Torino!): i Palestinesi potrebbero essere gli antesignani di un Islam e di un cristianesimo aperti entrambi alla pace tra religioni e culture, potrebbero giocare un ruolo storico fenomenale per oggi e per domani. 

Ma oggi Ebrei e Palestinesi insieme hanno bisogno anzitutto di guarire dall’odio, di disarmare mani e cuori, di cessare di credere con la più falsa delle fedi che la morte, il dolore e l’offesa altrui difendano dalla morte, dal dolore e dall’offesa propria. Solo se ciascuno saprà sentire come proprio il dolore dell’altro, il nodo maledetto si scioglierà. I loro due corrispondenti dolori sono la loro provvidenziale opportunità. Chi saprà aiutare i due popoli, anche solo un poco,  nel far questo, sarà il vero amico di entrambi e di ciascuno dei due. I quali sono “condannati” dalla storia e dalla terra alla convivenza e alla pace, e quindi,  nonostante il buio di questo momento, sono popoli fortunati, più di quelli che hanno nel loro futuro soltanto la propria orgogliosa solitudine. 
L’unico modo di vivere è convivere col diverso. Il resto è morire.

Enrico Peyretti
 

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