Editoriale
Sabato 7 luglio, la giornata genovese di oltre 60 associazioni cattoliche, con circa duemila presenti, per la critica e la proposta anti-G8, è stata un momento significativo dell’impegno cristiano, tuttavia sempre parziale, in questo movimento, che è il primo moto anticapitalista di portata mondiale, dopo la fine del comunismo. Un moto che qualcuno ha già individuato come un “68 altruista”.
Nell’incontro genovese è stato presentato  ai leader del G8 tramite il governo italiano, nella persona dell’ambasciatore Vattani  - fischiato quando ha tentato di abbellire e giustificare la politica dei G8 e le condizioni che pongono ai paesi poveri, dicendo persino che rispettano l’Onu - un documento chiaro nelle critiche e nelle proposte alternative. Il documento, ispirato al valore della persona umana, introdotto da parole di Maritain e di Luther King, tocca i punti guerra, diritto, debito, povertà, responsabilità del mercato, lavoro, ambiente, scienza, democrazia economica.
Qualche parziale osservazione critica. Quel testo ripete quattro volte: «Voi siete i nostri rappresentanti». Non è vero. I singoli governi, nella misura in cui sono democratici, rappresentano i popoli, ma non il club degli otto che, per il fatto di avere potere decisionale determinante nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca Mondiale, presumono di decidere per tutti i popoli, nel proprio prevalente interesse, e di imporre doveri economici anche ai più poveri. Infatti, il moderatore ha corretto quella espressione ribadendo quanto è peraltro scritto nello stesso testo: «Non parliamo ai G8 come governo del mondo, ma per ricordargli le loro responsabilità verso il mondo».
Quel documento ripete anche il luogo comune che la povertà è la prima causa di guerra. Non è vero. Quando ne hanno ancora la forza, la collera dei poveri può accendere la rivolta, ma la guerra è sempre fatta dai ricchi in difesa dell’ingiusto privilegio. Dice san Francesco: se ho una proprietà (aggiungiamo noi per giustificarci: privilegiata), devo avere un’arma per difenderla.
Tra i testimoni del Terzo Mondo, notevole l’intervento dell’artista e intellettuale della Guinea Bissau, Filomeno Lopes, in arte Fifito, che ha citato il fiore dell’intellighentsia africana, dimostrando che l’Africa soffre, ma vive e pensa. Egli ha detto tra l’altro: «L’arte di vincere senza avere ragione, chiamata democrazia».
Deciso, sul piano dei princìpi, l’intervento dell’arcivescovo di Genova, Tettamanzi: un giovane lavoratore, un bambino africano, valgono più dell’universo; i diritti dei deboli sono uguali a quelli dei forti; la globalità c’è, manca il villaggio, la vicinanza, il luogo dell’incontro; non G8 ma 
G-Tutti; la proprietà privata ha funzione sociale, tutti i beni hanno destinazione universale. E ai giovani ha detto: volontariato, sì, ma impegnatevi anche nella politica.
Bettazzi ha ricordato la Pacem in terris, che esaltava il ruolo dell’Onu, tanto più necessario oggi. Ed è stata riferita la parola d’ordine proposta oggi da Antonio Papisca: Forza Onu! Negli stessi giorni del G8, l’Onu discute il controllo del mercato delle armi leggere, che sono - ha detto bene Kofi Annan - le vere armi di distruzione di massa. Ma Bush difende il “diritto” dei suoi fabbricanti di armi, che lo hanno finanziato.
È interessante e positivo che il settore giovanile e impegnato del mondo cattolico non manchi a questo appuntamento storico mondiale, e che agisca con decisione nella direzione critico-positiva, anche per riequilibrare quelle componenti del moto 
anti-G8 che fanno temere violenze, perché non conoscono altri modi di affermare critiche e ragioni. Nel giorno della manifestazione in cui quella parte tenterà di “sfondare” la zona rossa, rischiando che la guerriglia urbana squalifichi tutto il movimento, molte congregazioni religiose hanno convocato i credenti a preghiera e digiuno, nella chiesa di Boccadasse.

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A Genova per contestare la riunione dei G8 ci saranno, si dice, 150/200 mila persone (chiudiamo il numero il 12 luglio). Qualsiasi persona di buon senso sa che quando si creano masse con questa identità (di contestazione) e dimensione (centinaia di miglia di persone) è molto facile (non per fatalismo ma per senso pratico) immaginare che al loro interno si possano nascondere e confondere malintenzionati di “varia provenienza”.
Il movimento antiglobalizzazione è indubbiamente una realtà variegata, che va dagli scout all’area dell’autonomia più irriducibile, e fra questi due estremi molte sono le sfumature di posizione. Gli autonomi sono quelli che dicono che non gli interessa nulla e che loro vanno solo e comunque a ingaggiare lo scontro contro i poliziotti, a patto ovviamente che siano meno di loro (come le squadracce fasciste, più o meno la stessa logica). 
Sono per la distruzione e lo scontro fine a se stesso. 
Ci sono poi aree consistenti che si riconoscono nella disobbedienza civile, in cui, per comodità di comunicazione, possiamo far rientrare le famose “tute bianche”. Poche settimane fa alcuni di loro convocarono una conferenza stampa e in diretta nazionale, con il passamontagna, si coprirono di ridicolo, scimmiottando il discorso ben più serio del subcomandante Marcos quando annunciò l’insurrezione armata dell’EZLN (ovviamente la differenza non è solo nel fatto che dopo il discorso Marcos e gli indigeni presero i fucili...).
L’area delle tute bianche (criticate sia dai più moderati di loro, ma anche e soprattutto da quelli più radicali), durante le manifestazioni di piazza, si pone come obiettivo quello di cercare di sfondare i posti di blocco presidiati dalle forze dell’ordine, attribuendo a questa azione un forte significato simbolico. Per fare questa azione utilizzano il proprio corpo in modo quasi passivo, spingendosi come massa, alzando le mani, e ricevendo l’immancabile carica della polizia in assetto antisommossa. Da qui la scelta di un abbigliamento appropriato, fatto da protezioni di vario genere per difendersi dai colpi ricevuti e limitare i danni. Ma le tute bianche sono anche quelle grazie alle quali chi va alle manifestazioni può portare a casa la pelle senza troppe sbucciature e lividi, perché quando la polizia chiama la carica o spara lacrimogeni ad altezza d’uomo (senza aver subito alcun tipo di provocazione e comunque sproporzionata rispetto alla loro reazione), se non ci fosse l’interposizione attiva delle tute bianche, molti dei presenti non avrebbero più la voglia (e i denti) per fare i loro bei discorsi e partecipare alle manifestazioni (cfr libro bianco di Amnesty sugli accadimenti di Napoli di qualche mese fa).
Gli autonomi e gli irriducibili non si riconoscono in nessun cartello e non accettano che nessuno li rappresenti. Quasi tutte le altre realtà, invece, aderiscono al Genoa Social Forum (GSF), il cartello di più di 700 associazioni che dà rappresentanza democratica e unitaria al movimento di contestazione.
Che dire ancora della scelta di chiudere le frontiere (che si chiudono solo alle persone, non alle merci, ovviamente), perché si teme l’arrivo di migliaia di contestatori dall’Europa e dal resto del mondo? Che dire poi del “no” alle richieste fatte dal GSF che 
i poliziotti agiscano senza armi da fuoco (dovesse mai a qualcuno venire la voglia di emulare il collega svedese che ha sparato e ucciso un ragazzo a Goteborg) e che vengano ridefinite le zone di Genova in cui non è consentito l’accesso?  Tutte azioni decise da uno stato (di polizia), per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dai contenuti, su cui 
i contestatori fondano la propria protesta e il diritto di farla, ai problemi di ordine pubblico, facendo passare ancora la facile equazione contestatore = violento (sempre e comunque).
Uscendo fuori dagli schemi imposti dai dibattiti di questi giorni, vogliamo sottolineare quanto sia importante partecipare a scelte che determineranno le condizioni di vita delle generazioni che verranno. Si tratta di non avallare e non lasciare le grandi scelte in mano alle oligarchie dei paesi più potenti. 
È vero, noi apparteniamo a questi paesi (anche se ci lamentiamo sempre delle nostre condizioni di vita), ma dobbiamo renderci conto che non è accettabile, prima di tutto moralmente, appoggiare una politica che esclude, peggio emargina, i più deboli, nel Nord come nel Sud del mondo. C’è oggi una diffusa tendenza, in tutte le forze politiche (anche nella sinistra), a difendere interessi “di cortile”. 
La speranza di vivere in un mondo più “uguale”, possibile solo se più giusto, dove deve prevalere l’interesse di “tutti” su quello “mio”, con la globalizzazione si allontana. Sta affermandosi il principio che ci vede interessati esclusivamente a vivere meglio noi e, per chi ce l’ha, la sua famiglia. L’utopia sembra aver perso la sfida con l’aspetto più squallido e cinico della realtà.
Pensiamo sia giusto opporsi al G8 con i metodi civili, senza il ricorso alla violenza, ma bisogna anche ricordarsi che esiste una violenza del potere. Esattamente questa è la ragione pratica, politica, per cui non si deve fare la minima violenza anti G8 (neppure la pressione - tanto meno invasione - della zona rossa, che serve ad affermare se stessi, non le ragioni degli esclusi): per non imitare, consacrare, avallare, confermare specularmente con la violenza diretta (meno grave) la violenza strutturale (più grave). Questo è ciò che non capiscono i “violenti giustizieri” e chi li scusa: la “giustizia” violenta dà ragione alla violenza dell’ingiustizia, perché afferma che non c’è altro metodo che la violenza. Non si potrebbe rendere maggiore omaggio ai G8.

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