LIBRI
Giovani e pace
Il libro curato da Alberto L’Abate (Giovani e pace. Ricerche e formazione per un futuro nonviolento,  Pangea, Torino 2001) contiene saggi suoi e relazioni di esperienze e ricerche di amici, studenti e collaboratori. Rappresenta una ricca e singolare miniera di materiali, spunti e contributi nell’ambito dell’educazione alla pace e alla nonviolenza, elaborati nell’ultimo decennio e recentemente sistematizzati.

Dal punto di vista metodologico l’opera è caratterizzata dai seguenti aspetti che ne fanno un classico testo di ricerca per la pace. In primo luogo salta in evidenza il costante intreccio di Ricerca- Educazione-Azione come impianto costituivo dell’approccio proposto, elemento comune a tutte le esperienze presentate: la ricerca muove dagli interrogativi e dai problemi della realtà ed è orientata all’azione; l’educazione è uno dei processi fondamentali per promuovere e mettere in atto il cambiamento.

Un altro aspetto molto importante è l’attenzione all’interazione dei diversi livelli, delle caratteristiche personali e situazionali da un lato e delle dinamiche strutturali, dall’altro.

Come presupposto vi è una proposta formativa globale che coinvolge le tre fondamentali dimensioni della mente (dimensione cognitiva/affettiva; sapere, conoscere, comprendere, sentire), del corpo (dimensione operativa, saper fare), dell’anima (dimensione esistenziale, saper essere).

L’accento, infine, è posto sulla centralità delle metodologie e degli strumenti usati: nella cultura della nonviolenza mezzi e fini coincidono, non c’è subalternità, ma coessenzialità tra strumento usato e fine perseguito.

I contenuti trattati sono molteplici, a partire da una concezione dell’educazione alla pace come «educazione a combattere  ingiustizie e violenza senza usare le loro stesse armi» (p. 184), vale a dire come educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti.

Centrale è nel testo un approccio dinamico e relazionale al conflitto: il conflitto è inteso come processo e l’accento è posto sui fattori personali, strutturali e situazionali che ne caratterizzano la dinamica.

In più ricerche è ripresa la tesi dell’atteggiamento “schizofrenico” nei confronti del conflitto: esaltazione del conflitto a livello politico e sociale; rifiuto e negazione di esso, invece,  in favore di atteggiamenti consensuali e solidaristici,  nei rapporti interpersonali e in ambito educativo. Ciò fa sì che «la religione e la pedagogia, educando al consenso in una società in cui, a livello politico, prevale il conflitto e la dominazione di un  gruppo più forte, in realtà divengano strumenti di riproduzione del potere attuale, mantenendo le ingiustizie sociali e gli equilibri su cui si basa il nostro sistema» (p.156). La “teologia della liberazione” e la “pedagogia degli oppressi” rappresentano, in questo senso, la reintroduzione del conflitto nella religione e nella pedagogia e la nonviolenza è la strada maestra per l’assunzione e l’umanizzazione del conflitto.

Un’altra ipotesi chiave è che «il pregiudizio sia uno dei fondamenti su cui si basa la nostra società»: esso è infatti un elemento fondante per creare e mantenere quella distanza sociale che consente la de-umanizzazione dell’altro, fino all’uccisione, è, insomma, un elemento strutturalmente necessario per mantenere in vita l’istituto della guerra (in linea con il modello dominante di cooperazione all’interno e competizione all’esterno).

Molto importanti, infine, le ricerche sul ruolo centrale dell’assertività nella trasformazione costruttiva dei conflitti, in connessione con la teoria nonviolenta del potere diffuso: essa è caratterizzata da una serie di competenze sociali che vanno dalla capacità di percepire in modo adeguato le conseguenze dei propri comportamenti (livello cognitivo), alla capacità di far fronte a sentimenti di ansia, frustrazione e fuga e di gestire la rabbia e l’ira (livello emotivo), alla capacità di trovare soluzioni che non siano violente né verso l’altro, né verso se stessi (livello comportamentale).

Angela Dogliotti Marasso


 
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