TEODICEA (3)
Il male come pena per il peccato?
Dopo quella di Satana, un’altra teoria circa la genesi del male consiste nel considerare la sofferenza come pena per il peccato: ovvero il meccanismo della retribuzione, sia individuale che collettiva-corporativa. La realtà del M/S (abbr. di male e sofferenza) viene situata nel contesto del peccato e del castigo per il peccato.  “Tutto ciò che si qualifica come male o è peccato o è pena per il peccato” (s. Agostino). La sofferenza è spiegata come punizione o retribuzione per i peccati commessi; è una giusta pena per delle colpe acquisite. La convinzione che dietro le disgrazie e gli incidenti che capitano ci sia un qualche potere che ripaga e punisce, non dipende di per sé da una fede teistica; anzi possiamo constatare, con un certo stupore, che essa può sopravvivere anche slegata da una simile impostazione di fede. La cattiva azione mette in movimento un male che presto o tardi deve volgersi contro chi l’ha commesso e/o la sua comunità.  Sia nel mondo ebraico che in quello greco abbiamo sin dai primordi la “contaminazione”, che in seguito alla violazione anche involontaria di un tabù/divieto può rovesciarsi su tutto il gruppo etnico; si tratta ovviamente, secondo i nostri canoni, di una prospettiva a-morale o pre-morale, in cui fra l’altro possono avere scarso peso, sempre secondo i nostri canoni, sia la quantità (l’azione può essere banale) che la qualità (azione addirittura involontaria e inconsapevole).

La concezione sintetica della vita.

Da una concezione pre-morale si passa poi alla versione morale. Innanzitutto si suppone tacitamente che la sofferenza del colpevole sia meritata o giustificata (come negli attuali sostenitori della pena di morte), e quindi non esiga ulteriori spiegazioni. Si ha comunque una irradiazione del male che si placa solo nel suo ritorno, quasi come un boomerang, sul malfattore colpevole. Nella versione ateistica tutto questo è quasi automatico, come dominato dal fato. Nel contesto teistico invece di solito c’è un avvenimento giudiziario addizionale tramite il quale Dio decide il castigo (retribuzione in senso stretto). Dio o il fato influenzano il destino; anche nell’A.T., almeno prima di Giobbe, è presente la convinzione che Jahwé vigila sul rapporto tra azione e sorte, e, se necessario, lo attiva, lo accelera e lo attua: si dà cioè una corrispondenza tra azioni buone 
e sorte benigna, e viceversa tra azioni cattive e sorte infausta. 

Questa concezione, a prescindere dalla fede nella divinità o meno, è stata chiamata “concezione sintetica della vita”, perché in essa l’agire dell’uomo da un lato e le sue condizioni dall’altro non sono intesi ancora come due momenti separati e indipendenti.

L’empio e il malvagio si scavano la fossa con le proprie mani, i peccati e le ingiustizie commesse ricadono su di loro. E se l’obbedienza alla volontà divina espressa nella legge è/sarà ricompensata con la prosperità, Dio punisce la disobbedienza con tribolazioni, malattie, catastrofi naturali, guerre. Per un verso, il nesso tra peccato/colpa e pena/retribuzione è inteso in senso molto stretto, dove la cattiva azione verrà inevitabilmente ripagata, anche se non necessariamente nell’immediato. 
Per l’altro, lo si interpreta anche in modo alquanto lato, nel senso che il peccato, nei suoi effetti 
funesti, non coinvolge soltanto la vittima e il malfattore, ma anche, e dolorosamente, la comunità a cui il peccatore appartiene e la sua discendenza, ovvero lo stesso gruppo sociale d’appartenenza o la sua progenie. Si pensi soltanto che la punizione divina può colpire anche la moglie e i figli 
degli empi, pur non macchiatisi di colpa alcuna. 
È la già ribadita oscillazione fra logica individuale-personale e logica collettiva-corporativa sia in orizzontale che in verticale, nonché l’oscillazione fra retribuzione pressoché immediata e 
retribuzione dilazionata nel tempo (fin poi all’eskaton?).

La concezione simmetrica di Dio.

 Tutta questa problematica ha una lunghissima storia. È cominciata col Dio guerriero, col Dio degli eserciti che colpisce i nemici di Israele, nel quadro dell’“enoteismo”: che cioè Israele ha il suo unico Dio, mentre gli altri popoli “avranno” i loro Dei. Il Dio d’Israele deve comprovare la sua forza facendo vincere Israele nelle guerre. Si tratta di una concezione politico-militare della divinità, poiché la guerra fra due popoli è concepita come guerra fra i rispettivi Dei. In seguito però alla sconfitta militare prima con gli Assiri e poi coi Babilonesi, si pone la scottante questione: il nostro Dio è stato sconfitto dai più forti Dei assiro-babilonesi? Solo col Deutero-Isaia matura il 
monoteismo puro: esiste un solo Dio, il nostro, che colpisce anche Israele per i suoi peccati tramite la sconfitta militare, la deportazione e l’esilio. Dio cioè può colpire tutti, e retribuisce i singoli, sia a livello strettamente individuale che a livello di popolo, tribù, etnia, famiglia e progenie.

È la cosiddetta concezione simmetrica e mimetica di Dio: buono coi buoni, che ricompensa con la prosperità; cattivo coi cattivi, che castiga con la disgrazia. È la tipica figura del Dio che “originariamente esige” (“il Padre celeste dalle mille pretese”) per poi restituire già a livello della vita storica in termini di premio/castigo a seconda che l’esigenza venga soddisfatta o meno. È un Dio lontanissimo anni-luce dal Dio neo-testamentario che “originariamente ama”!  In Gv 9 (il cieco nato) e soprattutto in Lc 13,1-5 la sorte di quegli uomini che, su ordine di Pilato, vennero uccisi e di quelli che morirono per la caduta della torre di Siloe solleva il problema, nell’ottica del tempo, di quali peccati abbiano commesso (nel caso del cieco i loro genitori) per rendersi responsabili della disgrazia ad essi capitata. Gesù esclude un nesso diretto fra i peccati commessi da queste vittime e la disgrazia patita. Ma Gesù va oltre, ed offre la più radicale contestazione della concezione simmetrica e mimetica testé menzionata: “amate i vostri nemici..., perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5, 45); e “amate i vostri nemici..., e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6, 35).  Dio quindi non è simmetrico, buono coi buoni, cattivo coi cattivi, ma spezza la simmetria essendo buono e benevolo verso tutti, compresi i malvagi, gli ingrati e gli ingiusti: nei confronti di questi ultimi è anti-simmetrico ed anti-mimetico. Prescindendo completamente da cosa avverrà dopo la morte e dopo la storia (ci sarà retribuzione? e in che senso?), su cui comunque avremo occasione di ritornare, secondo il messaggio di Gesù è assolutamente chiaro che nel decorso della vita intra-storica non si dà alcuna retribuzione, né in positivo né in negativo. È un Dio che “originariamente ama”, non un Dio che “originariamente esige” per poi restituire e retribuire: le conseguenze di questa virata sono praticamente infinite.

Ma non bisogna aspettare il Nuovo Testamento per trovare la contestazione del suddetto impianto retributivo in cui il M/S si configura come pena per il peccato. Già nel libro di Giobbe esplode la critica: gli amici di Giobbe sviluppano i propri ragionamenti nella convinzione corrente che Dio vigili sui giusti e punisca, infliggendo sofferenze, i malfattori. Ma Giobbe contesta radicalmente la teodicea dei suoi amici, secondo la quale pure lui sarebbe ovviamente peccatore, malfattore e colpevole. Nel libro emerge evidente il dubbio radicale per la logica individuale della retribuzione: l’obiezione più pesante e decisiva sta proprio nel fatto che, mentre ai peccatori all’apparenza le cose vanno sovente bene, spesso le persone giuste e timorate di Dio, proprio come Giobbe, devono soffrire l’inferno. L’esperienza concreta del M/S contraddice tale logica, se la sventura può abbattersi su tutti gli uomini a prescindere dal loro comportamento morale. Ma, dato e non concesso che quando si tratta di adulti sarebbe forse possibile evitare l’aporia supponendo - come gli amici di Giobbe - una qualche colpa nascosta, la cosa è assolutamente esclusa quando si tratta di bambini, in una età in cui non si fanno ancora scelte morali e quindi non è possibile nemmeno peccare.

Teodicea del terrore.

Né miglior fortuna può avere la logica collettiva-corporativa della retribuzione, nella versione in cui la tribolazione, la sofferenza e la morte sono la pena che Dio infligge per la disobbedienza dei nostri progenitori. Proprio per questa pena inflitta tutte le generazioni successive dovranno patire. Segno visibile di tale condizione sarebbe soprattutto la mortalità umana, non prevista nel piano originario della creazione. Il peccato di Adamo non è qui visto quale cattivo esempio per le successive generazioni (come invece affermavano i pelagiani), e nemmeno solo come corruzione ontica della natura umana, ma quale colpa morale che affligge, a motivo della discendenza da Adamo, la stessa natura umana e quindi l’intera umanità. Oltre alla corruzione meramente naturale del genere umano viene trasmessa anche la colpa, altrimenti non si sarebbe potuto spiegare come mai il peccato di una sola coppia potesse avere provocato un disastro dalle proporzioni così catastrofiche. Se tutti sono colpevoli, per quanto non abbiano ancora peccato in modo “attuale” (come i bambini), tutti meritano di essere puniti (da qui la sofferenza patita anche dai bambini). Ma se tutti sono colpevoli in Adamo, allora la punizione, la malattia e la disgrazia dovrebbero colpire tutti! Come spiegare invece una sofferenza distribuita in modo arbitrario?
Non convince quindi per nulla né la logica individuale della retribuzione, né ancor meno la prospettiva collettiva: nonostante tutte le numerose contorsioni interpretative, nessuno è ancora riuscito a spiegare perché la colpa dei progenitori avrebbe dovuto avere come conseguenza un 
allontanamento da Dio di tali proporzioni collettive universali e coinvolgente la stessa natura dell’uomo, e neppure perché le conseguenze dovessero concretizzarsi proprio in malattie, catastrofi della natura ed altri fatti che ingenerano sofferenza.  Questo prima del 1800; oggi poi nessun biblista serio inquadrerebbe Gen 1-11 in una prospettiva storico-cronologica e monogenista, come nessun teologo che usi il proprio raziocinio sosterrà le posizioni ingenue e fondamentaliste dei Padri e degli antichi sullo stato di perfezione di Adamo e la condizione del mondo paradisiaco prima della caduta.

Tale logica conduce inevitabilmente ad una “teodicea del terrore”, frenando tra l’altro pericolosamente la lotta contro il M/S in una sorta di accettazione passiva: infatti una pena che si considera giustamente inflitta da Dio va sopportata passivamente, in quanto potrebbe apparire empio opporsi ai voleri divini di giusta retribuzione. Il tentativo tradizionale di legare insieme, mediante l’idea della punizione, il male naturale col male morale non è più sostenibile.

Mauro  Pedrazzoli

(continua) 


 
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