UNA LETTERA ALLE AUTORITÀ |
L’esercito cambia se cambia cultura |
Per grazia di Dio (e anche per volontà della Nazione, in verità) non avevo mai visto coi miei occhi una festa dell’esercito come quella che si è svolta il 4 maggio di quest’anno, a Torino, in piazza San Carlo. Tutta la bellissima piazza era coperta da reparti militari, scattanti come meccanismi elettrici agli ordini secchi dei loro capi. Ora esibivano sciabole e mitra (tutta roba che sa solo ammazzare), ora si voltavano di qua, ora di là. L’immagine desolante è quella di uno strumento meccanico, non di un insieme di persone libere. Poveri ragazzi. Ero presente, dalla parte opposta al palco delle autorità, per distribuire ai cittadini presenti, con altri amici, un volantino molto critico. Laggiù sul palco, alla destra del Capo dello Stato, in mezzo a un centinaio di autorità, rosseggiava l’abito del successore degli apostoli. Pensai allora che, in una situazione simile, Gesù flagellato rosseggiava soltanto del suo sangue, e del manto scarlatto buttatogli addosso appunto dai soldati, ma per dileggiarlo. L’occasione della festa era il 140° anniversario dell’istituzione dell’esercito italiano. Secondo i giornali di alcuni giorni prima, la ricorrenza veniva così solennizzata per inaugurare una Scuola di Guerra a Torino, città che ha una tradizione sia di addestramento raffinato alla soluzione armata dei conflitti, sia di studi per la pace. In realtà, nei discorsi ufficiali in piazza San Carlo, quella espressione - Scuola di Guerra - non si è sentita. In seguito, ciò che si è venuti a sapere, è che, presso la nostra Università, viene istituito un master in peacekeeping - non unicamente militare, sembra - in aggiunta al corso di laurea in Scienze Strategiche, avviato fino dal 1998, nel quale - così pare - la strategia sarebbe di fatto identificata con le tecniche militari. D’altra parte, nella stessa nostra Università, è in gestazione da tempo un Centro Studi per la Pace (cfr il foglio n. 262, p.7). La sera, a casa, ho scritto una lunga lettera (forse per questo rimasta senza alcuna risposta, a differenza di altre volte) al Presidente della Repubblica, al Sindaco della città, al Rettore dell’Università, all’Arcivescovo. Dicevo il profondo disappunto interiore provato nell’assistere a quella cerimonia. Nella mia critica usavo ancora l’espressione “Scuola di Guerra”, che oggi vorrei correggere nel modo suddetto, ma riconoscevo volentieri al Presidente di aver detto che l’esercito “è oggi una realtà completamente diversa da quella che fu fino a 50 anni fa”. Questa affermazione fa bene sperare, scrivevo, nonostante la vergogna di aver partecipato ad una vera e brutta guerra, appena due anni fa, “ma richiede di vedere effettivamente trasformata la cultura, l’organizzazione, la strumentazione, l’etica, la mentalità e la stessa simbologia dell’esercito. Le nuove funzioni di polizia internazionale di pace, che l’esercito oggi vuole vantare, sono tutte da verificare”. “Se il nostro esercito si trasformasse davvero in polizia di pace, dovrebbe porsi alle dipendenze non di una alleanza militare particolare come la Nato (cioè una fazione nell’umanità), ma delle reali istituzioni cosmopolitiche, che dobbiamo rafforzare e democratizzare, invece di esautorarle come ha fatto gravissimamente la Nato, nell’aprile 1999, coinvolgendo anche l’Italia”. Scrivevo che non si è autorizzati a pensare che solo le armi fermano le armi, se non si fa nulla, preventivamente, per sviluppare la cultura (che è anche conoscenza di realizzazioni storiche) e i mezzi della soluzione civile, cioè umana e non omicida, dei conflitti, se non si destina alla “ricerca e sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta” (art. 8 della legge 230/1998) neppure le briciole delle enormi risorse gettate nel calderone della cultura di guerra e degli apparati armati. Accanto ai “caschi blu” dell’Onu, crescono le iniziative dei “caschi bianchi” disarmati, quindi più civili. La politica e, ancor più, la cultura devono porsi questi problemi, se vogliono costruire una più umana civiltà. Enrico Peyretti |