Proprio il colpevole non è da uccidere

(Lettera inviata al direttore de La Stampa il 13-6-01, e non pubblicata).

Timothy McVeigh, pluriassassino confesso, è stato ucciso. Giovedì 14 viene “ingiustiziato” un minorato mentale. Ceronetti (La Stampa, 10-6) deride le richieste di clemenza per McVeigh: «Capirei se il caso non fosse chiaro», e chiede: «Da dove viene il riflesso di voler salvare ad ogni costo un condannato, stavolta giustamente, a morte?». Esclude che c’entrino ragione e pietà. Dopo essersi detto incerto e domandante, afferma sicuro che «agisce la rimozione folle, occidentale, italiana in specie, della morte». Lo schema fisso del paradosso può schiacciare il buon senso umano. Ovvio che è ingiusta la messa a morte - che pure è avvenuta ed avviene nello Stato-guida - di un innocente o non provato colpevole. La questione della pena di morte riguarda proprio il colpevole certo. Ucciderlo è ingiusto. Proprio questo è ciò che non deve fare uno Stato di diritto, se vuol essere un poco migliore della «libertà selvaggia» (Kant), e non imitatore e istigatore pubblico dell’omicida privato. Ricordiamo che McVeigh agì nell’idea di vendicare una strage di Stato. Che senso ha lo Stato se non proprio quello di «rimuovere la morte», cioè costruire la convivenza, quanto più possibile? La vendetta del più forte sul colpevole ormai inerme non è forse una celebrazione della violenza? Se la pena di morte, in cui Bush ha cieca fede, non riduce di nulla gli omicidi - e questo è certo - non è forse un culto pubblico della morte? Non è forse la medesima nera superstizione che ha mosso McVeigh? Chi davvero accetta la morte, nostro limite interrogativo, non la moltiplica.

Enrico Peyretti


 
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