UNA SERATA MILANESE
Raccontare storie
A Pinerolo, a Chieri, a Torino ho presentato le Storie mancine con discreto successo di critica e di pubblico. Nell’entroterra di Albenga, sono salito fino ai sassi del primo “villaggio medioevale-telematico” (Colletta di Castelbianco) per una “cena d’autore” segnata dall’assoluta assenza di lettori. Evento non inconsueto: mi hanno consolato gli organizzatori; evento comunque speculare con l’ultimo incontro programmato a Milano per la sera del 19giugno, presso la parrocchia di San Giovanni in Laterano. Qui il pubblico c’era, numeroso e qualificato, mancavo io, trattenuto a casa dalla febbre, e questa è la cronaca della serata, condotta da Paolo De Benedetti con l’aiuto di Carlo Sala, che ha voluto così sintetizzarla.
a.b.
La sala dell’oratorio è animata da una sessantina di amici, il pubblico degli incontri della «Cattedra dei non credenti». Paolo De Benedetti ed io ci sediamo al tavolo, lasciando tra noi una sedia vuota per l’autore che non può esserci.
Io scaldo subito l’ambiente con una lettura del brano di Buber sul sacrificio agli idoli e do la parola a Paolo che parte da una citazione di Harald Weinrich, tratta dall’introduzione: «Poco a poco nella teologia cristiana al corpus di racconti che costituiscono la Scrittura si è sostituito un corpus di argomenti concettuali. Non fu il logos ad essere narrativizzato, bensì le narrazioni bibliche ad essere logicizzate. Le domande hanno trovato risposte non più nei racconti, ma nei catechismi».
L’attenzione all’interrogazione attraverso i racconti si è riscoperta recentemente fra i cattolici. Basti pensare ai saggi dedicati da Brunetto Salvarani alla “teologia narrativa”. Ma sulla strada della riscoperta della narratività teologica mancava ancora in Italia un passo fondamentale. Aldo Bodrato lo ha fatto con le sue storie che terminano con l’opposizione di vari esiti possibili, nessuno dei quali è conclusivo. Si entra nei suoi racconti da una porta spalancata e se ne esce attraverso un’altra altrettanto aperta, ma tra queste porte e al di là di esse il percorso è imprevedibile. Il lettore certo può capire tutte le singole storie, ma soprattutto trovare quelle che si pongono le sue stesse questioni, lo toccano e gli danno la scossa. Alla fine esclama: «Ah no, allora il cristianesimo non è quello che pensavo, ma quest’altro molto più problematico!». Ciò viene detto con tutta la parresia opportuna, parresia che nessuno può esprimere in concetti.

Leggo a questo punto La Leggenda del Santo Bevitore, e De Benedetti continua citando dal Congedo quello che Bodrato immagina di dire a Dio, quando non potrà più narrare storie agli uomini; ma aggiunge: «Io però dico che Dio gli risponderà: Credevo che lo Spirito Santo avesse da tempo chiuso il becco e invece...».

Normalmente noi commentiamo i racconti facendone l’analisi critica, perché non siamo più in grado di raccontare.Abbiamo però anche la possibilità di rilanciarli in tutta la loro verità commentandoli con lo stile del midrash, chiedendoci, ad esempio, che cosa faceva Noè nell’arca e rispondendo che non dormiva mai, perché doveva nutrire gli animali, ciascuno alla sua ora. Arricchiremmo così la nostra conoscenza spirituale ed esistenziale del Patriarca e impareremmo che le bestie delle favole non sono uomini travestiti da animali, né animali truccati da uomini, ma personaggi di racconti che vanno letti e capiti come tali senza confondere storie e allegorie.Il racconto è, infatti, quello che è in sé stesso. Non nasconde significati segreti che dall’esterno lo guidano, proprio come le parabole che non hanno bisogno della morale ma, a loro volta, sono veri racconti imprevedibili nella trama e nella chiusa.

Esemplifico con la lettura di Santa moderazione e di Antropomorfismo e lascio ancora la parola a De Benedetti che prosegue: «Sì, noi siamo in una situazione disgraziata. Abbiamo sentito tante volte la stessa cosa. Appena apriamo una pagina del vangelo sappiamo subito come va a finire. Noi abbiamo liso, come il tessuto di un vestito, la novità dell’ascolto della parabola. È necessario che ci sia qualcuno che inventi altre storie, non per fare come Gesù, il che è impossibile, ma perché abbiamo bisogno di novità, di essere colti dallo stupore dell’ascolto. Se invece ci disponiamo come se dovessimo ascoltare sempre la stessa cosa, si compie un grande appannamento della novità dell’ascolto. Chi ascoltava Gesù ascoltava cose che erano nuove. Noi, a nostra volta, abbiamo bisogno di narratori che ci facciano sentire il profumo della torta del terzo piano, come scrive il parroco don Angelo Casati nella lettera di giugno.

È importante cogliere la fragranza di una conciliazione nuova tra l’umano e il divino. Dio ha dato all’essere umano l’intelligenza, e fa parte delle nostre esigenze che, quando si racconta una cosa, la si renda ascoltabile. Ciò avviene grazie alla voce del narratore e della sua opera. Nel nostro caso, grazie alle storie che compongono questo libro, che sarebbe riduttivo considerare un testo “religioso”. Contiene, infatti, una freschezza di scoperte per tutti che lo rende caro anche a persone sinceramente non credenti.
Purtroppo di questi narratori oggi ce ne sono pochi. Non che manchino i romanzi, manca il narrare haggadico, fatto di testi brevi epigrammatici. Iracconti sono così fatti che ti accompagnano per tre passi e poi ti congedano e ti dicono: «Adesso vai da te». Il romanzo invece ti scorta per un lungo cammino. Potremmo ricordare l’esempio, non felicissimo ma emblematico, dell’ebreo che incontra un funerale e che, anche se non conosce il defunto, lo deve seguire per almeno dieci passi. Né la morte è argomento secondario in queste storie, come è facile arguire dalla lettura de Il riccio, la morte e il brodo di tartaruga.
Certo, ci sono racconti come questo, amari e non consolanti, ma uno non può decidere di diventare narratore di storie, lo deve già essere dentro. Deve essere gravido di racconti e su di essi ha la stessa padronanza che ha sui figli, li mette al mondo così come essi sono e vorranno essere, non come li vorrebbe lui».
«Mi sono chiesto - ha detto ancora De Benedetti - se c’è qualcos’altro di simile nella letteratura. Certo nel mondo ci sarà qualcosa.Ma nell’ambito più prossimo, italiano, non mi è venuto in mente nulla. Quando scrivo un libro, poi, devo preoccuparmi innanzitutto che non possa fare del male, anche e proprio in senso fisico. Per essere un buon libro, un libro deve essere piccolo e leggero, in modo che se ricade in testa non faccia male. Questo è un piccolo libro, così, veramente unico e prezioso».
Se vogliamo immaginare la vita che ci attende in cielo è difficile che ci piaccia sperarla come 
volevano i mistici medievali: un eterno cantar salmi a Dio, o come se la rappresentavano i rabbini: leggere e commentare la Torah in compagnia di Dio. Insomma, sarebbe meglio che potessimo ascoltare e raccontare storie... e che Dio ci liberi dalle prediche!
Infine, lettura de Il lupo, l’agnello e il poeta, seguita da un vivace dialogo tra il pubblico e l’oratore. Dialogo ricco di esempi, storielle, facezie curiose e concluso con l’invito all’autore, assente, a pubblicare al più presto anche la raccolta delle Storie di Monsignore, apparse per lungo tempo su il foglio, subito dopo le Storie mancine.

Carlo Sala
 

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