TEODICEA (6)
Dio nel dolore
L’idea che Dio potesse soffrire era assolutamente inconcepibile nel teismo tradizionale, tutto arroccato sui concetti indifferenziati e statici di immutabilità, perfezione ed eternalismo (al di sopra e al di fuori del tempo; l’eternità invece può essere pensata nell’ambito del tempo). La mutabilità implica temporalità. Un essere eternalista e staticamente perfetto non può cambiare, né in meglio né in peggio, e non può aggiungere o togliere nulla (o comunque modificare) al proprio stato di sublime perfezione; è aristotelicamente atto puro, pensiero di pensiero, che esclude per definizione ogni potenzialità ed ogni possibilità. Una persona divina, così concepita, non sarebbe quindi in grado di entrare in relazione con cose e persone che esistono nel tempo; ma allora non sarebbe nemmeno in grado di amare altre persone, né di reagire in qualche modo alle loro azioni. E inoltre essa non sarebbe capace, nemmeno in un senso vagamente analogico, di pensare, conoscere, decidere, volere, desiderare, sentire, agire, rivelarsi, incarnarsi, ecc.

La tradizione biblica però attesta inequivocabilmente che Dio possiede tutte queste proprietà e capacità; il che dimostra ancora una volta come il concetto biblico di Dio sia radicalmente incompatibile con quello metafisico. Basti pensare alle contorsioni della Commedia dantesca in cui, soprattutto nel Paradiso, Dante si arrampica a più riprese sugli specchi per conciliare i due concetti.

Il crocefisso liberatore?

A partire dalla prima decade del 1800, grazie all’opera di Hegel e di Schelling, Dio viene pensato nel divenire, con il conseguente crollo del concetto metafisico di Dio ed una presa di coscienza della passibilità di Dio, della sua possibile capacità di soffrire (un essere incapace di soffrire è anche incapace di amare). Il tema della sofferenza di Dio è stato poi anche usato nel contesto della teodicea come tentativo di risolvere il problema. Intendiamoci: «che Dio condivida ogni sofferenza nel suo prendersi cura di tutte le creature; che Dio sia il compagno che soffre per noi e comprende; che Dio nella passione e morte di Gesù si identifichi con tutti i crocefissi della storia» – tutto questo è molto bello, nobile e vero! Ma la questione della teodicea non fa alcun passo in avanti, se non quello di eliminare per fortuna un Dio onnipotente e apatico, seduto sul trono celeste nella sua «beatitudine», che si autocontempla nella sua gloria e nelle sue sublimi perfezioni, e che solo da una infinita distanza volge lo sguardo sulla sofferenza umana, la stessa che egli per principio potrebbe impedire in quanto onnipotente dotato di onni-efficacia senza limiti.

Ma come si può annunciare Dio in quanto liberatore e redentore se, sia nel Figlio Gesù che negli altri figli umani, «anche a Lui le cose sembrano andare schifosamente nello stesso modo» (Rahner)? Il non-detto e il non-trattato in tale teologia è che Dio appare relativamente debole, con una drastica riduzione dell’onnipotenza classica; il che va benissimo, ma bisogna assolutamente precisare come, in che senso e in cosa esattamente consiste questa riduzione di potenza. È un compito difficilissimo, che ci occuperà molto nelle prossime puntate; sarà una delle caratteristiche principali della fede in futuro.

Salvezza e speranza.

A un Dio che ha il potere di creare il mondo si dovrà forse ascrivere il potere, ad esempio, di impedire Auschwitz? Con il termine «Auschwitz» intendiamo tutte le Auschwitz della storia, tutte le barbarie di qualsiasi segno e colore che hanno causato sofferenza «storica» (per sofferenza storica, distinta da quella «naturale», si intende la sofferenza che certuni arrecano, senza giustificazione, ad altri).

Parlare di Dio che insieme a noi patisce, dire che Dio ha sofferto ad Auschwitz, che è Dio stesso che pende dalla forca, pur essendo a mio parere verissimo, non giova a nulla per la teodicea e non risponde alla domanda. La speranza escatologica in una redenzione, come pure più in generale il carattere salvifico del messaggio cristiano, risultano intellegibili soltanto a patto che Dio abbia se non altro il potere di mettere fine ai patimenti che travagliano la sua creazione. Se non è in grado di farlo crolla l’intera impalcatura soteriologica, e con essa pure quel substrato che ancora ci consente di parlare di Dio. Se Dio non ha questo potere, sperare in una salvezza definitiva sarebbe un tragico errore. E se Dio dispone di tale potere, perché non pone termine fin d’ora e qui ai nostri patimenti? Se poi ne dispone ma non lo usa, bisogna indicare chiaramente i motivi del suo non-intervento, e non eludere il problema rimuovendo tutto. Se fosse intervenuto ad Auschwitz, o meglio ancora molto prima con un mezzo miracolo per mettere fuori combattimento Hitler sin dall’inizio, io personalmente non mi scandalizzerei più di tanto del fatto che momentaneamente e in via eccezionalissima sia stato sospeso il libero arbitrio per ragioni gravissime. 

Coloro che vedono miracoli ovunque, così pii e devoti, perché non invocano miracoli di questo genere? E perché non si scandalizzano del fatto che non avvengano? Se si guarisce a tutto spiano e si deviano pallottole, la cosa incresciosa non è il fatto che Hitler abbia nutrito dei cattivi propositi, ma che Dio non sia intervenuto tempestivamente nel momento in cui egli li traduceva in atto. Occorre tener presente che invece nel caso dei malati, se il malato glielo chiedesse e Dio lo guarisse, non ci sarebbe alcuna violazione del libero arbitrio; allora perché mai Dio non interviene già qui ed ora per mettere fine alla sofferenza, sempre che sia in grado di farlo?

Talvolta (spesso) ci si giustifica adducendo la ragione, piuttosto frusta, che il problema della sofferenza non può essere affrontato secondo un punto di vista meramente “teoretico”; ma allora “perché non tacere e fare silenzio nelle chiese?” (Davide M. Turoldo). «Parlare di Dio o è un discorso che si fa nella visione e nella promessa di una giustizia più grande che comprende anche le sofferenze del passato, oppure è un discorrere vuoto, che non promette nulla, nemmeno a chi vive nell’oggi...; è vero ciò che vale per tutti, compresi i morti e gli sconfitti» (Metz). 

Come già ribadito, è assolutamente da escludere la concezione della sofferenza come mezzo per il conseguimento di scopi superiori (anche se qualche volta può succedere), come «valore presso Dio» (il vecchio e decrepito Leitmotiv, ormai insopportabile, di offrire a Dio le proprie sofferenze, presupponendo ovviamente di offrire qualcosa di gradito), o quale giusta punizione per la peccaminosità umana: basta con questa concezione sadica di Dio, a cui corrisponde un’autovalutazione masochistica dell’uomo.

Le domande di fondo e di fuoco sono tutt’altre: ad es. come parlare di Dio che si manifesta come amore in una realtà caratterizzata dalla povertà/miseria, dall’oppressione, dall’ingiustizia? Seppur con qualche sbavatura, questo tipo di linguaggio lo ha cercato con grande nobiltà e dignità la teologia della liberazione, il cui intento ultimo è la liberazione del mondo dalla sofferenza. Quella di vincere la sofferenza è la prassi di Dio, ma anche la prassi che Dio pretende da noi.

Teodicea e creazione.

Ma né la memoria passionis, a cui Metz si appella, né la grandiosa forza dello Spirito di Dio che ha resuscitato Gesù dai morti, né il suo glorioso potere su tutte le cose, decantato spesso da Paolo – tutto questo non spiega ancora la presenza del male (soprattutto naturale) in un mondo che Dio ha creato. E finché non si fa luce su questo punto, convincerà poco anche il ragionamento soteriologico. Se da una parte nei termini tradizionali Dio sembra permettere che l’umanità soffra, dall’altra questo stesso Dio viene descritto come la potenza che risuscita i morti e porta a compimento il suo regno di giustizia. La pronunciata ispirazione escatologica qui implica la speranza che la sofferenza verrà un giorno definitivamente sconfitta, per una iniziativa che non è solo umana ma divina. Rimarrebbe da chiarire soltanto perché mai Dio avrebbe affidato, in questa situazione intermedia, la possibilità di ridurre tanto soffrire a una umanità che manifestamente si sente impari al compito (soprattutto per quanto concerne la sofferenza “storica”). Come mai i rilevanti fattori che ingenerano sofferenza, qui in particolare quella naturale, hanno questo amplissimo raggio d’azione all’interno di un mondo che è pur sempre stato creato da Dio? Inoltre un Dio che ha creato il mondo dovrebbe pur disporre, anche al presente, del potere necessario per ridurre o cancellare la sofferenza. E perché non lo fa? Forse perché non dispone di questo potere? E come mai egli può ristabilire invece, e definitivamente, il regno di giustizia per gli ultimi tempi?

Dobbiamo forse concludere che la questione di fondo è mal posta? Nella prospettiva tradizionale assolutamente no! In una visione più attuale forse sì, nel senso seguente: occorre ricalibrare tutto il discorso sulla creazione (che in ogni caso non è diretta), e più in generale sull’agire di Dio nel mondo e nell’eskaton. Enunciamo ora solo la tesi (che sarà argomentata e sviluppata nei prossimi articoli): in tutti e tre i casi suddetti (creazione, storia, vita ultraterrena) l’interazione di Dio si situa a livello spirituale/informazionale, e non a livello molecolare-energetico; Dio non s’intromette nelle quattro forze fondamentali della natura, come non interagisce con la materia e le 18 particelle-onda della teoria standard. Il mondo ha fatto tutto da se stesso, in un sistema libero che si è evoluto. La creazione può essere vista come dono della temporalità informatizzata (meglio, suscettibile di una sempre maggiore informatizzazione), quindi un’origine “spirituale-informazionale”, comunque anteriore, sia cronologicamente che ontologicamente, al “big bang” dell’universo. In questo modo è possibile spiegare come Dio oggi non elimini la sofferenza, ma sarà in grado di portare la consolazione escatologica.

Il teismo creazionista parte invece dal presupposto che sia stato Dio stesso a creare direttamente la situazione in cui l’essere umano si trova a vivere. Egli non solo ha creato direttamente soggetti che operino in modo libero e responsabile, ma ha organizzato, sempre direttamente e in prima persona, il loro spazio di libertà in modo tale che essi dispongano della possibilità di arrecare sofferenze. Ma tutto questo è pre-ottocentesco; Dio non ha determinato direttamente né la natura umana, né la situazione in cui si viene a trovare, né il suo spazio di libertà. In questo modo risulta pure più accettabile l’argomento del libero arbitrio, che rimane tuttavia incompleto: soprattutto perché non dice nulla sul male naturale/fisico, che non spiega nella maniera più assoluta.

Mauro Pedrazzoli

(continua)


 
[ Indice ] [ Sommario ] [ Archivio ] [ Pagina principale ]