UN (QUASI) INGEGNERE IN ETIOPIA
«Ho guardato negli occhi l’umanità dimenticata»

È opinione comune che gli ingegneri siano solo dei tecnici che non si pongono problemi al di fuori della sfera progettuale. Il più delle volte, purtroppo, questo corrisponde a verità. Per quanto riguarda me, ho sempre cercato di estendere le mie sensibilità al di fuori della vita al Politecnico. Spesso, per fare questo, ho sacrificato del tempo che avrei dovuto dedicare allo studio. Sono in ogni modo contento delle scelte fatte. Credo che il fatto di essere un bravo ingegnere sia secondario rispetto all’esigenza di essere una brava persona, quindi ho cercato di lavorare su entrambi i fronti.

Proprio per questo motivo ho deciso di svolgere la mia tesi in un paese in via di sviluppo. Mi sembrava giusto rendere il mio lavoro utile a qualcuno che avesse realmente bisogno d’aiuto. Ho cercato appoggi e contatti per realizzare questo desiderio, ad esempio i ragazzi di Ingegneria senza Frontiere del Politecnico di Torino, e sono riuscito nel mio intento.

Il grave problema dell'acqua.

Sono partito per l’Etiopia il 13 giugno scorso, per seguire i lavori d’approvvigionamento d’acqua potabile da parte di una Ong marchigiana, il C.v.m. (Centro Volontari Marchigiani). Durante il mese di permanenza ho percorso 2000 chilometri per visitare i vari siti operativi della Ong, attraversando in lungo e in largo la regione del Sud Omo, situata a 750 chilometri dalla capitale Addis Abeba.

La realtà del Paese è drammatica: solo il 18% della popolazione ha accesso ad acqua potabile. A questo si aggiunge la crescita esponenziale del numero di persone in condizioni di sieropositività: si calcola che il 60% degli adulti tra i 15 e i 49 anni potrebbe morire nel prossimo decennio, se non sarà controllata l’espansione dell’epidemia.

Nel Sud Omo, regione che si estende fino al confine con il Kenya, quando si scende sotto gli 800 metri la situazione è durissima: le piogge scarseggiano, il paesaggio semidesertico è attraversato da una rete di fiumi completamente asciutti. Donne e bambini sono costretti a camminare per chilometri sotto il peso di carichi inumani, a volte enormi fascine di legname, a volte giare d’acqua. Spesso le tribù nomadi scavano buchi profondi circa quattro metri nei letti asciutti dei fiumi, dai quali estraggono acqua che nessun occidentale si azzarderebbe ad annusare: loro la bevono, la usano per cucinare, vi abbeverano il bestiame.

In questo quadro, il C.v.m. lavora in collaborazione con le missioni cattoliche locali. L’obiettivo è quello di dare alle suddette comunità fonti d’acqua potabile, attraverso la realizzazione di pozzi profondi, superficiali e, più raramente, attraverso la protezione di sorgenti, che scarseggiano e che comunque si trovano solo ad altezze superiori ai 1200 metri.

Oltre al progetto da me seguito, il personale del C.v.m., costituito da etiopi supportati da un esiguo numero di volontari italiani, si occupa anche di un programma di sensibilizzazione-informazione sull’Aids e di un programma di protezione di sorgenti nell’Est, più ricco di risorse idriche.

La base di partenza di tutti i miei viaggi di osservazione era Jinka, uno dei maggiori agglomerati urbani del Sud Omo. Qui sono stato ospitato da una delle volontarie, Sara, ragazza di 27 anni laureatasi in Ingegneria Ambiente e Territorio nella mia stessa facoltà. Una di quelle persone che tra il money making e l’aiutare la gente ha optato per la seconda via.

Per quel che riguarda gli impianti idrici, Jinka è servita da due pozzi profondi attrezzati con pompe sommerse, i quali alimentano un serbatoio posto nella zona alta della città, costruiti dagli uffici governativi. Da qui si dirama una rete che giunge a diversi punti di distribuzione. La situazione è migliore che in tanti altri posti, ma pensare di avere un rubinetto in casa, cosa che a noi pare ovvia, è un’utopia. Donne e bambini fanno la coda ai punti di distribuzione e ai pozzi, attrezzati con pompe a mano, realizzati dal C.v.m. e da altre Ong. Spostandosi nei piccoli agglomerati urbani, dove l’apparato statale latita, l’unica risorsa d’acqua potabile sono i pozzi scavati dalle organizzazioni non governative, a volte attrezzati con pompe a mano, a volte, dove il clima lo consente, con pompe azionate da mulini a vento.

A parte i problemi tecnici, oltre tutto non è così immediato che i nomadi insediati nelle zone semidesertiche apprezzino e utilizzino pozzi mano o mulini a vento. Diverse Ong hanno fallito nei loro intenti proprio per l’incapacità di rapportarsi in maniera costruttiva nei confronti delle comunità e delle loro peculiarità culturali.

Il C.v.m., prima di pensare a scavare, pensa a familiarizzare con le tribù e con le popolazioni dei villaggi. Dopo un periodo, lungo a volte anche qualche anno, durante il quale si attivano strutture scolastiche e lezioni per ragazzi e bambini tenute da formatori etiopi, si propone alla comunità l’installazione dell’opera idraulica. Se la comunità accetta, si procede con la scelta dell’ubicazione e del tipo di opera, sempre tenendo conto delle volontà e delle esigenze locali. Quaggiù non c’è spazio per indagini geologiche preliminari, per un processo decisionale scientificamente corretto che conduca a scegliere la posizione ingegneristicamente più adatta. Il costo per delle indagini precise sarebbe troppo alto, ci si basa sull’esperienza dei perforatori e dei volontari.

Alle comunità viene richiesto un contributo per le spese di realizzazione dell’opera: la quota non è fissa, ma concordata caso per caso con le autorità del villaggio, in base alle loro possibilità. Si tratta sempre di una piccola percentuale del costo totale. Questo metodo consente alla comunità di percepire l’opera costruita come un bene comune. Le persone, quando il pozzo è a regime, si impongono di pagare una cifra simbolica (circa 100 lire) per ogni secchio riempito. Il denaro è raccolto in una sorta di cassa comune, destinata alle eventuali spese di manutenzione.

Inoltre, il C.v.m. si occupa di formare un gruppo di manutentori e manutentrici, scelti tra la popolazione dalle autorità del villaggio, che si prendano cura del corretto utilizzo e che siano in grado di risolvere gli eventuali problemi di funzionamento.

Ai margini del mondo.

Ho visto tutte queste cose con i miei occhi, ho toccato con mano l’entusiasmo degli etiopi, sia di quelli che lavorano per l’Ong, sia di quelli che usufruiscono dei loro servizi. Ho visto la scarsa sensibilità delle autorità governative rispetto a questi problemi, e lo scoramento della gente di fronte all’inettitudine degli uffici pubblici, abilmente nascosta dietro una maschera di ufficialità e di pomposità. Le persone che più hanno bisogno d’aiuto in questo paese vivono ai margini della società etiope.

Se si considera che l’Etiopia, insieme a molti altri paesi, è ai margini dell’economia mondiale, si riesce a capire meglio dove viva quell’80% di umanità che tira avanti con il 20% delle risorse. Io, come chi legge, sono compreso in quel 20% di fortunati che non hanno bisogno di camminare per ore sotto il sole cocente per avere un secchio d’acqua. Ma ho visto l’umanità dimenticata, l’ho guardata negli occhi, e ora non posso fare a meno di cercare un modo di esserle utile.

Spero che sempre più persone imbocchino questa strada, nel modo che preferiscono, aiutando per quello che possono. Spero che non ci sia più bisogno di farsi uccidere a una manifestazione per far arrivare all’orecchio dei potenti del mondo le grida d’aiuto dei cinque miliardi di persone che lottano ogni giorno per sopravvivere.

Aspetto qualcuno, magari qualche collega studente, che mi aiuti a sperare.

Francesco Caldarola


 
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