I VESCOVI ITALIANI E LA GUERRA
Il vangelo messo a tacere
A conclusione della sua bella analisi del rapporto tra chiesa e guerra, analisi proposta durante l’incontro di Biblia dell’ottobre scorso (cfr il foglio 286), lo storico Giovanni Miccoli poneva questo interrogativo: «È possibile che di fronte a questo tema la chiesa scelga una linea capace di rinunciare alla pretesa di porsi come maestra e di cercare nel vangelo legittimazione a comportamenti tutti legati al secolo?».

L’autore, che è anche uno dei migliori studiosi della figura di Francesco d’Assisi, evidentemente pensava alla proposta del Poverello di ritorno al puro e nudo vangelo, ma aveva ben presente che questa è un’eventualità mai presa in considerazione dai vertici della chiesa italiana, tutti tesi a recuperare il ruolo di referente spirituale e culturale delle forze politiche che oggi ci governano. Spaventati dalla possibile separazione tra interesse dell’Occidente e interessi del cristianesimo, essi si sono affrettati ad approvare l’intervento militare degli Usa e dell’Europa contro l’Afghanistan e a proporsi come “cappellani militari” dell’intera operazione, contraddicendo il papa, e anche peggio, mettendo a tacere il Cristo.

È il vangelo la vera grande vittima delle poche e maldestre parole che i vescovi pronunciano sulla guerra e delle molte che fanno scrivere dal loro organo di stampa, “Avvenire”, che sempre di più assomiglia, nelle argomentazioni politiche, economiche e sociali, ad un qualsivoglia quotidiano confindustriale. E, mettendo a tacere il vangelo su temi come la guerra e la giustizia, i vescovi ci informano che la Bibbia non ha più nulla da dire e che il suo radicale messaggio di speranza e di liberazione dal male e da ogni forma di violenza e di oppressione ha definitivamente lasciato il posto al molto più sensato e realistico magistero ecclesiale.

Se un tempo la chiesa ha piegato la Scrittura alle proprie esigenze mondane, oggi neppure più la evoca. La Bibbia nulla dice infatti sull’insegnamento dell’ora di religione, sul finanziamento pubblico degli oratori, sull’uso dei contraccettivi nei campi profughi, sulle esigenze del libero mercato, sui modi e sulla durata delle guerre giuste, sui diritti dell’Occidente cristiano (?) alla supremazia culturale e politica nel mondo, sulla funzione legittimante che la chiesa assolve nei confronti di tale potere, sui privilegi che le spettano come religione del principe. Ha invece parole imbarazzanti sul rovesciamento escatologico di tutti i valori terreni, sul primato dei poveri e dei deboli, sulla malvagità della ricchezza acquisita con lo sfruttamento del lavoro e del mercato, sulla condanna dei potenti e di ogni loro ingiustizia, sul rifiuto della violenza e della guerra, sul destino di marginalità e di persecuzioni dei discepoli del Cristo, sull’impossibilità che essi si mantengano fedeli servendo due padroni: Dio e Mammona, Gesù e i signori del mondo.

Del resto, se la comunità cristiana esiste per vivere ed annunciare il vangelo, che senso può ancora avere una chiesa che si rifiuta non solo di realizzarlo nella sua vita, ma persino di proclamarlo? Come meravigliarsi che ne nasconda, oltre il radicalismo etico ed esistenziale, anche quello teologico? Vale a dire che taccia sul valore teofanico della croce del Cristo, sulla speranza nella resurrezione dei morti, sull’amore sofferente e compartecipe del Dio trinitario?

Resistere alla violenza del potere.

Se tutta la chiesa italiana fosse quale i suoi vertici episcopali la vogliono, non resterebbe che presentarla come la tomba, senza resurrezione, del Crocefisso. Fortunatamente così non è e al suo interno non mancano le voci di singole istituzioni ecclesiali, quali Pax Christi e Caritas, di movimenti rappresentativi, di gruppi di preti e di laici che difendono l’ideale della pace e del dialogo tra le religioni e tra i popoli. Abbandonati dalla chiesa ufficiale, se non apertamente sconfessati, accusati dai poteri politici e mediatici di essere sostenitori occulti del terrorismo, idealisti imbelli e pericolosi, essi si trovano ad operare «come agnelli in mezzo ai lupi».

Lo ha detto bene Enzo Bianchi: «Il cristianesimo ha sì dei nemici, ma essi sono sempre e soltanto al suo interno: sono quelli che vorrebbero declinarlo come religione civile, identificandolo con l’Occidente e chiedendogli di dare fondamento etico ad un potere che non vuole interrogarsi sulle diverse possibilità di fermare il terrorismo e sulle conseguenze che un intervento armato può avere per i civili innocenti e per il futuro del mondo. Classificare con disprezzo i cristiani come pacifisti antioccidentali, succubi di un buonismo melenso, è facile, ma non è serio... Sì oggi, ancora una volta, i tempi non sono fa-vorevoli né per i poveri, né per le vittime della guerra, né per quelli che credono nella pace» (Repubblica del 27 ottobre).

Viene allora da chiedersi – parafrasando Ermis Segatti, referente per la cultura della diocesi di Torino – se l’emergenza, che incombe sul mondo dopo la comparsa di un livello inaudito di terrorismo e le prime fasi di una guerra dalle conseguenze imprevedibili, non ponga gravi e rinnovate ragioni per ravvivare e purificare la fede nelle sue istanze primarie. Se ai tempi duri della caduta dell’impero in Occidente il motto ispiratore del monachesimo fu ora et labora, oggi potremmo tradurre tale motto ispiratore, nel nostro clima di caduta della cristianità nominale, in quello analogo, ma per noi quanto mai specifico e calzante, di crede et labora (“Notiziario dell’intersegreteria culturale” di novembre).

Sono parole che ci ricordano quanto Bonhoeffer scrisse dal carcere per il battesimo del nipote nel maggio del ’44: «La nostra Chiesa , che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza, quasi essa fosse il proprio fine, è incapace di farsi portatrice della parola riconciliatrice e redentrice per gli uomini e per il mondo. Ed è per questo che le parole antiche devono svigorirsi e ammutolire e il nostro essere cristiani si riduce oggi a due cose: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia» (Resistenza e resa).

Convertire il cristianesimo.

La catastrofe delle torri di New York, la degenerazione della risposta statunitense da lotta al terrorismo a bombardamento di uno dei popoli più poveri e martoriati, stanno lì a dirci che alla fine i nodi di secoli di ingiustizia sociale, economica e politica mondiale sono venuti al pettine nel modo più intricato, contraddittorio e doloroso possibile. Il silenzio imbarazzato e il parlare scomposto ed aggressivo di questa o di quella autorità religiosa di parte ci avvertono che anche le religioni e le fedi sono ad una svolta. O precipitano nell’insignificanza, appiattendosi sulle posizioni ideologiche dei potenti del loro mondo, o riscoprono, con un processo epocale di conversione, le proprie rispettive radici profetiche. Il che per il cristianesimo occidentale significa riconoscere il proprio fallimento e disporsi a rinascere su basi autenticamente evangeliche.

È la direzione in cui ci invitavano a camminare il riconoscimento di peccato e la richiesta di perdono, pronunziati l’anno scorso da Giovanni Paolo II e accolti con tanta ostile freddezza dalla nostra chiesa, ed è la direzione che ci viene indicata oggi dall’esortazione al digiuno, in occasione della chiusura del Ramadan (14 dicembre), e dalla proclamazione di una giornata interreligiosa di preghiera per la pace da tenersi in gennaio ad Assisi. Nessuno può nascondersi che confessione di colpa, richiesta di perdono, penitenza e digiuno, preghiera in comune con tutti i nemici religiosi di un tempo, sono premessa ed inizio di una conversione, destinata a mettere in crisi ogni ambizione di egemonia cristiana e ogni residua contiguità tra fede cristiana e supremazia politica, economica, militare e culturale dell’Occidente.

«Oggi che le più gravi domande sono lecite – scriveva la filosofa spagnola M. Zambrano nel 1945 – possiamo chiederci se ciò che l’Europa ha realizzato come sua religione sia stato Cristianesimo. In vero basta sentirsi anche solo un po’ cristiani per avvertire e percepire che ciò che l’Europa ha realizzato non è stato il Cristianesimo evangelico, ma al più la sua versione del Cristianesimo. È possibile un’altra versione che sia europea e soprattutto che sia vero Cristianesimo?» (La agonia de Europa, Mondadori, Madrid 1985, p.44).

Aldo Bodrato


 
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