LETTERE
Una sensazione di vuoto
Caro direttore, non ho seguito tutta la diretta da Piazza del Popolo: sono arrivato tardi e ho beccato solo il discorso del premier. Berlusconi richiama contenuti solidi, come la solidarietà con una nazione amica, la necessità di un patriottismo rinnovato, la difesa di un patrimonio democratico. Ammonisce chi si azzarda ad affermare che l’America miete quello che ha seminato: chi pensa così, dice, fa d’ogni erba un fascio, non sa distinguere.

Siamo tutti americani, conclude: sembra l’annuncio di una meta raggiunta dopo un lungo cammino. Peccato, si potrebbe aggiungere come si dice a volte nei momenti tragici, che questo succeda solo in certe circostanze!

Comunque, nella giornata romana le alternative al suo discorso non sono mancate. E alla Tv neanche. Così, ho visto Rutelli e Fassino mentre iniziavano la visita a Taranto. Non ci invitavano a sentirci americani, ma qualcosa del genere era venuto anche dalla loro parte all’indomani dell’11 settembre. E forse anche prima, in sette anni di governo di certa sinistra.

Ho visto, poi, anche la gente in strada, con Bertinotti. Con lui c’erano tutti gli altri, almeno secondo loro; tanti, di più. Anche quelli una bandiera americana l’hanno sventolata, ma in fiamme. Gesto poco pacifico, ma soprattutto poco originale e significativo di nulla se non di un fatto: il movimento no-global è uno dei fenomeni più globalizzati di questo tempo.

Sono uscito dalla carrellata televisiva con una grande sensazione di vuoto. Avevo davanti il solito emiciclo italiano, da destra a sinistra; dovevo solo scegliere. Ma più ci pensavo e più mi convincevo che mancava qualcosa. Era come il senso di una grande assenza.

Così, ci ho pensato un po’ su. Americani: sì, lo siamo, a patto di ricordare che “America” è un continente, che va dall’opulento e muscolare Nord ai bimbi delle favelas di cui nessuno parla più, passando, nel mezzo, per interi popoli di diseredati. Solo con questa memoria e in questo senso siamo tutti americani.

E un unico fascio d’erba lo fa chi, tenendo un presidenziale discorso o salutando i marinai, non distingue tra un popolo e chi lo governa; chi non ricorda che a candidarsi per le presidenziali negli USA vanno solo quelli che sono sostenuti dal grande capitale; e il grande capitale era il padrone delle torri, l’unico uscito indenne dal loro crollo.

Forse questo è stato detto nelle vie percorse da Bertinotti; di certo in molti l’hanno pensato e io potrei mettermi con loro. Però, le fiamme che hanno bruciato quella bandiera a stelle e strisce, l’ostilità (quando non è violenza aperta) che serpeggia come clima in certe manifestazioni, il radicalismo che rifiuta chi non arriva dalle loro esperienze anche se dice le stesse cose (anzi, soprattutto quando le dice!), tutto questo, e altro ancora, lascia intuire d’istinto che anche lì manca qualcosa.

Il vuoto è mancanza di qualcuno che parli in nome dell’uomo, in nome di quella persona umana intera che è in me e in te, non tutta in me e non tutta in te, non tutta presente a me senza di te.

Fino a ieri parlavo di dignità umana: era la stessa cosa, ma anche Berlusconi ne parla e allora, data la necessità assoluta di non confondersi, torniamo al semplice termine “uomo”, quel nome davvero comune che comprende innanzitutto le donne, i bambini e le bambine, i vecchi e le vecchie. Che comprende l’americano del sud nelle miniere e del nord sotto le torri, il musulmano in Palestina o a Kabul, il cinese orfano di Tien An Men ma non della WTO, noi, le nostre speranze e i nostri timori.

Non sento qualcuno che parli in nome dell’uomo, forse non c’è. Non parla, o non c’è, perché anche le tre posizioni, che si sono fronteggiate così bene tra Roma e Taranto, sono tutte e tre carenti della prima cosa che bisogna testimoniare e manifestare per parlare in nome dell’uomo: la verità. La verità nell’accettare e rivelare ciò che si è, la verità nel riconoscere l’autentico ed integrale bisogno che l’altro ha, la verità nel guardare alla storia di tutti senza strumentalizzazioni. Questa verità non c’è, quindi non si sente chi parli in nome dell’uomo.

Forse, però, a pensarci bene c’è chi ne parla, solo che non ha voce, non ha piazza. C’è da tanto tempo, da quando un uomo qualsiasi scendeva da Gerusalemme a Gerico: magari era un 
palestinese, anche se non ancora musulmano. Trovato uno mezzo morto, non ha perso tempo a bruciare bandiere, non ha manifestato con altrettanta violenza contro quelli che con violenza avevano pestato il malcapitato, non ha dichiarato guerra agli aggressori né ha cercato e salutato truppe che andassero a ristabilire chissà quale giustizia. Senza paura dell’Aids, si è preso il tizio sanguinolento e l’ha portato in salvo, ci ha rimesso di tasca perché venisse curato, ha assicurato che avrebbe pagato anche spese maggiori e poi è sparito nel nulla, senza attendere neanche un grazie.

Nessuno sa il suo nome, ma deve la sua fama a Qualcuno che ha raccontato e testimoniato la sua breve storia. Altri continuano a raccontarla anziché riviverla. Chi la rivive, perché c’è chi la rivive, non ha diritto di raccontarla.

Fabrizio Demelas


 
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