POLITICA E INDUSTRIA |
Italia senza Agnelli, Italia senza Fiat |
Pubblichiamo questo intervento sul futuro della Fiat dopo la morte di Gianni Agnelli perché ci sembra offra utili spunti di riflessione e di dibattito. Era già difficile separare ragione e passione nel dibattito sulla Fiat (a Torino poi!) quando ancora l’Avvocato ne rappresentava l’icona vivente, figurarsi dopo la sua scomparsa. Eppure l’emozionante funerale dell’ultimo principe sabaudo (Le dernier prince, «Le Figaro Économie», 25 gennaio 2003, p.11) apre un futuro più vasto su cui l’azienda, la finanza e la politica sono chiamate a elaborare progetti, ad assumere un ruolo nuovo. Ragione e passione – Giovanni Agnelli lo ha testimoniato – sono complementari e indispensabili per governare qualsiasi impresa, sia essa industriale o politica; ma devono esprimersi in momenti separati e sinergici, non mescolarsi nell’analisi, nella progettualità o nella decisione. Invece troppo spesso le si confondono mescolando la crisi aziendale, la politica dei trasporti e lo sviluppo industriale. La crisi aziendale La Fiat, come tutte le aziende private, per assicurarsi l’avvenire obbedisce essenzialmente a tre principi: anticipare il mercato, misurarsi con la concorrenza, fare utili da reinvestire. Se non riesce a rispettarli, chiude; ed è ciò che sta succedendo. La Fiat Auto – per lo meno negli ultimi dieci anni – non ha prodotto altro che automobili pensate per il mercato italiano, non ha coltivato dirigenti con una esperienza commerciale di dimensione europea e ha speso fortune per difendere le sue posizioni sul mercato domestico rendendosi schiava delle sue fluttuazioni. La Fiat Auto – da sempre – ha temuto e rifiutato di uscire dal sistema socio-produttivo italiano (si ricordi il fallimento dell’acquisto della Seat, o il rifiuto di entrare nella Saab – entrambe operazioni effettuate con successo da altri costruttori) se non in direzione del terzo mondo (Brasile, Polonia, Russia, ecc.) dove riprodurre i rapporti di forza nelle relazioni sindacali e politiche che le erano favorevoli in Italia. Né ha sviluppato (con la sola eccezione di PSA) accordi e collaborazioni con altri grandi marchi, per la ricerca e lo sviluppo di soluzioni tecniche forse più costose, ma certamente innovative, che le permettessero accedere a segmenti di mercato più remunerativi. La Fiat Auto, infine, da troppo tempo si è accontentata di livelli di redditività che qualunque economista definiva mortali per un’impresa automobilistica. Solo gli ingenui possono ora soprendersi che le sue obbligazioni siano oggi definite «titoli spazzatura» dagli gnomi della finanza. Sull’evoluzione della crisi, lasciando a Paolo Fresco e al gruppo dirigente tutto l’onere e l’onore delle scelte che dovranno fare, penso ci si debba augurare che la cessione a General Motors si completi, così da salvare qualche modello (Alfa Romeo?), uno o forse due stabilimenti e un pugno di posti di lavoro. In questo possibile scenario di integrazione nel gruppo G.M. la Fiat Auto ha antecedenti illustri come Cadillac, Opel, Saab; ed è certamente più credibile un impegno del colosso di Detroit per un piano di globalizzazione delle gamme di telai o di motopropulsori, che i deliri di Berlusconi sulla trasformazione dei metalmeccanici in infermieri. La politica dei trasporti Prima di alcune brevi note sulla politica dei trasporti mi pare necessaria una premessa: un mercato – e particolarmente quello dell’auto – è, ovunque nel mondo e specialmente in Europa, determinato dai comportamenti dei consumatori e dalle regole imposte dallo stato. Un’azienda automobilistica può influenzare i consumatori con la pubblicità e lo stato con la lobby, in maniera direttamente proporzionale alla debolezza di entrambi. In Italia i consumatori non sono né più né meno influenzabili che in altri paesi europei, ma lo stato è molto più debole. La responsabilità dell’indubbia efficacia della lobby Fiat, non ricade sul potere dell’azienda (tutte le grandi imprese fanno pressione sui governi con tutte le loro forze), ma sulla debolezza dei politici di destra, di centro e di sinistra. Se l’Italia non ha una politica dei trasporti degna di questo nome (come non ha una politica del controllo dell’informazione né una legge sul conflitto di interessi) non è perché Agnelli o Berlusconi o Benetton siano più cattivi di Henry Ford III o di Rupert Murdoch o di Ernest Antoine de Sellière, ma perché Fini, Buttiglione, Casini, Rutelli, D’Alema, Bertinotti (per non citare che gli attuali) sono attori politici molto più deboli dei loro colleghi europei. Francia e Germania, pur essendo azionisti di riferimento di tre case automobilistiche tra le prime dieci nel mondo (Daimler-Chrysler, Volkswagen A.G. e Renault/Nissan), hanno da anni adottato politiche dei trasporti cui guardiamo con invidia: linee ferroviarie ad alta velocità, infrastrutture aereoportuali collegate alle città, trasporti fluviali economici; tutti investimenti direttamente concorrenti al trasporto su gomma fatti da governi proprietari dell’industria dell’auto nei loro paesi! Quando sento – purtroppo ancora oggi tanti amici di sinistra – criticare la Fiat per avere riempito le strade di auto, mi viene lo sconforto. È come criticare Berlusconi per avere rincoglionito gli elettori con le sue tre televisioni: ma chi gli ha consentito di averne tre? Così non spetta alla Fiat, né alla Ford o alla Volkswagen o alla Peugeot, di decidere se si Il mercato automobilistico italiano, come quello di tutti i paesi occidentali, è un mercato saturo, con fluttuazioni talvolta anche forti, ma non per questo cessa di essere un mercato, le cui regole vanno definite in un quadro di politica dei trasporti che spetta ai politici formulare e attuare. Se la sinistra non ne ha una è infantile inveire contro la Fiat. Lo sviluppo industriale Più complesso – e quindi più interessante – il discorso sull’industria e sulla politica industriale. Con la cessione di Fiat Auto l’Italia resta priva dell’unica e ultima grande industria a carattere nazionale. Non è la fine del mondo: altri grandi paesi europei sono nella stessa situazione (Spagna, Irlanda, Inghilterra, per esempio). Non per questo la politica industriale deve scomparire dalle preoccupazioni della politica e in particolare della sinistra – di cui mi importa più che della destra. Ma il pericolo c’è. Intanto perché scompare la classe operaia, o meglio scompaiono alcuni dei suoi simboli federatori: le «tute blu di Mirafiori». Non scompaiono gli operai, frammentati in migliaia di piccole e medie imprese, che oramai sono il solo tessuto industriale del paese (che molti altri in Europa ci invidiano!); che cosa sperano? che cosa temono? che cosa credono? Ecco tante domande a cui è più difficile rispondere, perché non basterà più convocare una assemblea nella mensa della lastroferratura e mandarci Giò D’Alessandro per «prendere il polso della situazione». Anche la ricerca applicata deve trovare nuove strade. Se le piccole e medie imprese non hanno fondi da investire e le grandi strutture si riducono a filiali di gruppi multinazionali, possiamo noi rinunciare alla ricerca? Ci sono modalità che permettano a consorzi o associazioni settoriali di finanziare centri universitari? Siamo capaci di inventare nuove formule e controllarne il funzionamento? Infine gli ammortizzatori sociali: se oggi dubitiamo della loro corretta applicazione, come dovranno essere strutturati di fronte a una più massiccia quantità di posti di lavoro la cui perennità si decide a migliaia di chilometri dal nostro territorio e da personaggi meno coinvolti nelle vicende patrie del nostro compianto Avvocato? Se, nella sinistra, invece di fare polemiche su chi ha capito di più e prima imparassimo a assumerci le nostre responsabilità e a trovare soluzioni prima di criticare, forse la crisi della Fiat ci farebbe meno paura. Luigi Giusti |