RISORTO O VIVO NEL RICORDO? / 3 |
La tomba vuota |
Abbiamo visto (n. 297) che tra le diverse metafore, utilizzate dalla prima comunità cristiana per dire che Dio non ha abbandonato Gesù alla morte, quella della resurrezione prevale e s’afferma. Essa infatti meglio delle altre riesce a collegare l’agire storico del Nazareno, troncato dalla croce, con la missione evangelizzatrice della chiesa, iniziata dopo lo sbandamento dei discepoli. Ma abbiamo visto anche che tale metafora non è statica, bensì dinamica (n. 298). Cresce col passare del tempo e si arricchisce con lo sviluppo della riflessione di fede sull’esperienza vissuta e col cumulo narrativo delle immagini via via elaborate durante questa travagliata presa di coscienza di fede. Il tema delle apparizioni del Risorto è in tal senso esemplare e non è il solo. Accanto ad esso si colloca, ben presto, quello della tomba vuota, presente nei vangeli ma non nelle lettere di Paolo e negli altri scritti neotestamentari. Il che ci fa capire che tale tema non fa parte del nucleo essenziale e originario dell’annuncio di resurrezione. Non ne costituisce la necessaria premessa, anche se ha una funzione teologica e narrativa non trascurabile. Se mai ha una funzione narrativa. Come le apparizioni giustificano, infatti, il passaggio dalla predicazione di Gesù alla predicazione dei discepoli, così la visita alla tomba «fa da trait-d’union tra il Crocefisso e il Risorto» e ci invita a coglierne la continuità simbolica e personale (R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, vol. I, San Paolo, 1996). Ecco perché i vangeli, con la loro scelta di trasmettere l’annuncio e il messaggio di Gesù attraverso il racconto della sua avventura, hanno sentito il bisogno di recuperare e di valorizzare questa antica testimonianza, nonostante la sua debole valenza kerigmatica e il suo discutibile apporto apologetico. Ed ecco perché H. Kessler considera un corto circuito argomentativo identificare in modo diretto e materiale il corpo assente del sepolcro con quello misteriosamente presente delle apparizioni (La resurrezione di Gesù Cristo, Queriniana, 1999, p. 451). Se è vero infatti che è scorretto affrontare la veridicità di questi racconti con ragionamenti astratti e deduttivi, basati sul pregiudizio storicistico che quanto sfugge alla verifica empirica è falsità, altrettanto vero è che la tendenza di alcuni teologi a surrogare con prove pseudo-storiche e para-scientifiche tutto ciò che nella fede sfida la ragione è per la fede stessa umiliante e fuorviante. Le donne come testimoni Bisogna interrogare i testi e lasciarli parlare e i testi subito ci dicono identità e differenze. Sono concordi nel parlarci di donne che, appena trascorso il sabato, s’affrettano al sepolcro; trovano la pietra rotolata e la tomba aperta; vedono qualcuno in abito bianco che annuncia loro che colui che cercano è risorto e non si trova più lì. Si allontanano interdette tacendo o per dire tutto ai discepoli (X. Leon-Dufour, Resurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Paoline 1973, p. 216). Sono discordi, oltre che su questo esito finale, sul numero delle donne e degli uomini angelici, sul fatto che le prime constatino di persona o solo intuiscano l’assenza del corpo di Gesù e che i secondi rivolgano loro un essenziale annuncio di resurrezione, una circostanziata argomentazione sulle buone ragioni della stessa o un semplice interrogativo sul motivo delle loro lacrime. Ma soprattutto sono discordi sul modo in cui inquadrano e sviluppano l’intera scena. Marco punta sulla sorpresa e sulla meraviglia dell’annuncio. Le donne si recano alla tomba per ungere un morto, si chiedono chi toglierà il masso che ne custodisce il riposo e vedono il masso rimosso, la tomba aperta e un giovane in bianco che dice: «Cercate Gesù il crocefisso? È risorto. Non è qui. Ecco dove l’avevano deposto. Andate e dite ai discepoli che vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto». Fuggono spaventate senza dir nulla a nessuno (Mc 16,1-8). Come si vede, nel racconto che la maggior parte degli esegeti considera il capostipite della serie, la tomba vuota non è il centro, ma il luogo dell’annuncio e tutto tende a dirci la novità ineffabile dell’evento di grazia con cui Dio ha rotto i sigilli della morte e ha richiamato in vita il Crocefisso per restituirlo ai suoi e al loro cammino tra gli uomini. Matteo riprende Marco, ma lo inquadra in una narrazione più ampia (Mt 27,62-66 e 28,11-15) e lo corregge soprattutto nel finale. Abbiamo così l’aggiunta, tipica di questo vangelo oltre che di quello apocrifo di Pietro, del racconto delle guardie al sepolcro e degli eventi soprannaturali che accompagnano la rimozione del masso. Si tratta della ripresa di una tradizione poco nota o poco apprezzata, visto che nessun altro vangelo o scritto neotestamentario la usa. Essa tende a prevenire o a ribaltare una possibile accusa giudaica di rapimento del corpo di Gesù da parte dei discepoli per propagandarne la resurrezione. Non ha però alcun valore apologetico apprezzabile, visto che Matteo e lo Pseudo-Pietro non sono concordi nell’indicarci la nazionalità delle guardie e la dinamica della loro fallita sorveglianza, e soprattutto perché il suo esito finale è quello di sottolineare che la tomba vuota, come realtà fattuale, è soggetta a diverse letture, tra cui quella della sottrazione del cadavere. Cosa ipotizzata, vedremo, anche dal vangelo di Giovanni. Matteo non aggiunge dunque nulla di particolarmente significativo dal punto di vista documentario e storico a ciò che già ci ha detto Marco. Anzi con lui mantiene l’indicazione che il luogo delle future apparizioni del Risorto sarà la Galilea e non Gerusalemme, come vogliono invece Luca e Giovanni. Ma Matteo ci segnala che la tomba vuota comincia con lui ad essere oltre che il luogo del primo annuncio di resurrezione, anche un problema a sé, una potenziale occasione di polemica e di apologia. Non per nulla il suo angelo sottolinea con più forza di quello di Marco l’invito alle donne a constatare di persona che la tomba è vuota (28,6). La proclamazione «Gesù è risorto» precede ancora la verifica dell’assenza del suo corpo, ma la strada è aperta all’inversione dell’ordine che verrà realizzata da Luca in un racconto teso a rimodellare atti e parole così da rendere il tutto più attendibile storicamente e teologicamente più comprensibile. È tipico di Luca smussare gli angoli e colmare i vuoti, armonizzare i contrasti. Lo dichiara lui stesso nel prologo. Intende «scrivere con ordine» (1,3) e ordine comporta dare a ogni significativo frammento storico o simbolico della tradizione il suo luogo narrativo adeguato. È Luca a consentire di convivere nel suo vangelo, senza conflitti ma in mirabile armonia, la metafora della resurrezione e quella dell’elevazione al cielo, grazie alla creazione letteraria dell’Ascensione (24,50-53 e At 1,9-12), a moltiplicare il numero delle apparizioni del Risorto e a dilatarne apologeticamente e spiritualmente lo sviluppo, così da rendere più articolato e motivato il passaggio dei discepoli dallo stupore incredulo alla fede (Lc 24,13-35 e 36-49) Non c’è nulla di strano dunque se Luca fa prima constatare alle donne che il corpo del Signore non si trova nel sepolcro, poi sottolinea la loro perplessità e solo a questo punto mette in scena due testimoni angelici, che non si limitano ad annunciare la resurrezione con parole mirabili, ma la argomentano col richiamo alla predicazione del Nazareno e alla Scrittura (Lc 24,1-15). Pietro, Giovanni e Maria di Magdala La tomba vuota non è luogo di rivelazione solo per le donne. Luca e Giovanni ci parlano anche di discepoli. Pietro, che si purifica, corre, s’affaccia, vede solo «le bende» e se ne va «meravigliato per ciò che è accaduto», secondo Luca (24,12); Pietro e «l’altro discepolo», sollecitati da Maria di Magdala, secondo Giovanni (20,1-18). In questo vangelo l’avventura di Maria e quella dei due apostoli s’intrecciano narrativamente e teologicamente si sostengono. L’apertura e la chiusura toccano alla donna. Essa sarà protagonista sia della scoperta della tomba vuota sia della prima apparizione del Signore, tanto da diventare l’annunciatrice della resurrezione al posto dell’angelo. Ma procediamo con ordine. Maria viene alla tomba, la trova spalancata, corre piangendo da Pietro e dall’altro discepolo e li avverte che «hanno rubato il Signore» nascondendolo chissà dove. I due s’affrettano. Giunge prima l’altro, s’affaccia, «vede le bende per terra» e aspetta che entri Pietro. Questi varca la soglia e trova le bende gettate e il sudario piegato da una parte. Poi s’avanza ancora il compagno, «vide e credette», sebbene non avessero ancora compreso che doveva resuscitare. A questo punto i due tornano a casa, mentre Maria resta lì a piangere. S’affaccia ancora alla porta della tomba e questa volta due angeli delimitano il luogo dove era stato posto il corpo di Gesù. Essi non hanno altra funzione teofanica che quella di sottolinearne visivamente l’assenza e di interrogare la donna per farle ripetere la ragione del suo dolore. Le manca Gesù, anche solo la consolazione di vederne il corpo morto e di assisterlo con la sua amorosa presenza. La scena è pronta per la grande rivelazione. Si volta e vede Gesù senza riconoscerlo, anche quando questi le parla. Lo scambia per il giardiniere e, solo allorché si sente chiamare «Maria!», capisce e risponde «Maestro!». Evidentemente per Giovanni il corpo dell’amato Gesù, assente dalla tomba, è il corpo dell’amato Maestro riconosciuto vivente dalla donna al suono del suo nome. È lo stesso nell’identità delle relazioni personali e degli affetti, ma non nella sua immediatezza fisica. Il semplice sguardo corporeo non lo identifica e neppure il semplice udito materiale. È necessario si ricostituisca la relazione degli affetti, si rianimi il rapporto spirituale, che non si realizza compiutamente con l’abbraccio dei corpi, ma con la riunificazione al Padre e l’invio dello Spirito (20,17 e 22). Giovanni ci dice che non è la constatazione della tomba vuota, non è neppure il ritrovamento delle bende e del sudario a predisporre alla fede nel Risorto, ma la profondità della relazione d’amore. Per quanto egli condivida con Marco e con Matteo e, fatti i dovuti distinguo, con Luca, la testimonianza che la fede nella resurrezione non è frutto della riflessione umana sul ritrovamento della tomba vuota ma dell’iniziativa rivelatrice di Dio, egli pone ancora tra le due l’amore. La constatazione della tomba vuota è dunque, per i vangeli stessi, inessenziale alla fede. L’identificazione fisica tra il corpo materiale del crocefisso e quello «spiritualmente trasformato» del Risorto non è testimonialmente e teologicamente sostenibile. Ma ciò non significa che l’esperienza storica della tomba vuota, con tutta la problematicità delle sue possibili interpretazioni e la comprensibile varietà delle sue testimonianze, sia senz’altro fittizia, e soprattutto che per l’integrità della fede una qualche forma di continuità tra la realtà storica del Crocefisso e quella escatologica del Risorto, anche di natura corporea e personale, non sia costitutiva. «Un crocefisso non s’inventa. La morte di Gesù non è apparenza. Essa è ben reale e perdura in certo qual modo fin nella sua resurrezione, perché il Risorto rimane sempre un crocefisso: il Crocefisso» (Ch. Perrot, Gesù, Queriniana 1999, p.140). Aldo Bodrato |