FILOSOFIA E TEOLOGIA: GIRARD / 1
La violenza del sacro

Nel dibattito contemporaneo fra ermeneutica filosofica ed ermeneutica teologica il pensiero di René Girard sta assumendo un’importanza via via più rilevante in virtù di un singolare approdo che da un’originaria attestazione su di un orizzonte antropologico e filologico lo conduce a una vera e propria elaborazione di un pensiero critico tanto pregnante da chiamare in causa e mettere in discussione le categorie fondamentali della tradizione teoretica occidentale, nonché a un dialogo serratissimo con le Scritture, che sviluppa, conseguentemente, un approccio al cristianesimo come precisa ipotesi antropologica da un lato e dall’altro come correttivo critico della stessa teologia.

L’intento che qui ci proponiamo è quello di dare conto di tale percorso inserendolo in modo contestuale nella storia degli effetti da esso suscitata, con particolare riferimento al nesso del tutto nuovo fra religione e filosofia emergente dagli scritti più suggestivi del pensatore avignonese. Pertanto enunciamo, qui, i principali snodi problematici che tratteremo, al fine di esporre quanto più chiaramente e sinteticamente la portata della sua riflessione.

Un primo momento è dato da quella che possiamo definire come teoria mimetica del desiderio, evinta dall’analisi girardiana delle grandi opere letterarie, alla luce della quale Girard individua una teoria della verità romanzesca entro cui si gioca la comprensione di sé e la propria interpretazione del mondo.

Un secondo momento è dato da una particolare elaborazione storico-critica dei miti di origine e di fondazione, che definiremo epistemologia del mito, nel cui contesto Girard sviluppa la propria teoria antropologica. Qui sarà opportuno riflettere anche sul particolare ruolo girardiano nell’ambito di quella precisa operazione culturale definita come demitologizzazione.

Un terzo momento, che è poi il climax della teoresi girardiana, è quello che chiameremo scienza della Rivelazione e che approda a una vera e propria ermeneutica del fatto cristiano, individuando nei Vangeli e nelle Sacre Scritture tout court il discrimine ineluttabile rispetto al quale il kerygma annuncia e denuncia come violenza omicida l’istanza sacrificale voluta dalle religioni. Da questo punto di vista è fondamentale il riferimento a un trinomio: sacro, violenza, istituzione sociale, che rappresenta in ultima analisi il leit-motiv entro cui Girard sviluppa la sua riflessione.

La vittima sacrificale

Il desiderio costituisce un’istanza antropologica fondamentale che Girard indaga e usa come chiave ermeneutica per la letteratura universale sviluppandone una particolare dinamica. Il concetto chiave è appunto quello di mimesis. Il termine, ricorrente nella filosofia platonica, vuol intendere l’imitazione, ma il desiderio ha un referente o modello che media il suo dirigersi verso l’oggetto. Ci troviamo dunque in presenza di una struttura triangolare per cui si può dire che l’oggetto del mio desiderio è tale in quanto anche l’altro vi orienta il suo desiderio. Qui si pone la sua natura imitativa, in quanto l’altro diviene da un lato il deuteragonista/rivale, dall’altro il doppio che si cerca di eliminare. Girard vi individua uno schema transculturale di organizzazione della società, ravvisabile in tutti i miti di origine, e proprio su questa funzione del mediatore egli cerca di argomentare il legame fra violenza, sacro e organizzazione sociale, che consta di una corrispondente triangolazione.

Rivale affascinante, il deuteragonista del desiderio si rivela altrettanto il mostro da sacrificare, fino ad assurgere al principio del capro espiatorio, portatore di anomia e sacrificato per il buon ordine della città. Per il pensatore avignonese si tratta rispettivamente di una trascendenza deviata e di una ragione rituale che si esprime in una sorta di primitivo contratto sociale. Tuttavia per questo occorre esaminare la nozione di sacrificio, che implica sempre una separazione sulla base della quale giustificare la divinizzazione della vittima. Sacrificata, ovvero separata e messa a morte fuori del contesto della città, la vittima, attraverso la sua morte, esercita il suo benefico influsso, diventa pharmakon. Si tratta di una sorta di trascendenza, certo, ma esprimente una hybris del divino, il quale verrebbe ad assumere in toto la stessa natura imitativa del desiderio.

Il nostro autore individua questo meccanismo nel suo confronto con i testi classici come La morte di Romolo di Plutarco. Qui la vittima, letteralmente fatta a pezzi (in greco diasparàgmos) assurge a divinità nel momento in cui i suoi brandelli sono venduti come reliquie. Tuttavia è la stessa letteratura tout court che manifesta questa natura imitativa, ponendosi come una prima demistificazione; donde la dialettica fra menzogna romantica (basata sulla natura imitativa del desiderio e sulla sua dinamica triangolare) e verità romanzesca (capace di smascherare la violenza archetipica che sottende ogni istanza antropologica). Da questo punto di vista l’analisi girardiana dell’opera di Dostoevskij, di Stendhal e di Proust risulta particolarmente pregnante.

È indubbio, tuttavia, che Girard analizza quelli che lui stesso chiama documenti dell’umanità davanti a cui ha sempre luogo una sorta di apocalisse (nel senso etimologico di «rivelazione») del proprio sé e della visione del mondo. In sintonia con molta parte della filosofia ermeneutica anche odierna, il pensatore avignonese ravvisa nei miti la straordinaria documentazione dell’umanità e della sua stessa verità disvelata. Quella di Girard è una particolare ermeneutica del mito, in quanto non solo attesta quella verità che si dona nella ricchezza delle sue forme narrative, e ciò non di meno sottende una profonda istanza filosofica, ma anche per il fatto di volersi porre scientificamente come istanza epistemologica di questo principio violenza ritualmente ripetuto, che rappresenta il logos culturale di tutte le società.

Analizziamo ora più da vicino questa sorta di epistemologia del mito, cercando di mettere altresì in evidenza l’originale lettura girardiana del filosofico a partire dalla cifra religiosa del sacro.

La Scrittura desacralizzante

Secondo Girard, dunque, i miti sono delle forme archetipiche, capaci di mettere a nudo in eventi storici precisi il principio dell’assassinio fondatore. Nell’opera Il capro espiatorio, Girard prende come esempio un testo poetico di Guillaume de Machaut, poeta provenzale della metà del xiv secolo, nel quale il poeta imputa agli Ebrei un’epidemia di peste. Fonti storiche evidenziano la veridicità dell’evento, ma ciò che colpisce il nostro autore è come ogni persecuzione sia basata su di uno stereotipo mitologico, altrimenti definito come principio violenza. Dunque i miti costituiscono una sorta di manifesto culturale che si esplica secondo un’ulteriore triangolazione desunta da una ben precisa analisi strutturale, secondo cui il significante è la vittima, il significato l’unità della comunità, il segno originario per eccellenza è dato dalla vittima riconciliatrice. Il logos del sacro funge da trascrizione secolarizzata di tale cultura. Occorre tuttavia riflettere su questo accostamento di logos e sacro che potrebbe sembrare ossimorico, ma che in realtà esibisce una verità profonda, messa ampiamente in evidenza da un esponente autorevolissimo della filosofia contemporanea come Emmanuel Lévinas: l’ossessione dell’altro e del diverso. Non per nulla, secondo le analisi di Heidegger, cui Girard spesso si rivolge, sia pur talora polemicamente, il logos si riferisce alla radice greca leghein e significa ciò che raccoglie, in tal caso ciò che fa corrispondere pienamente l’essere e il pensiero, ma anche – e qui Girard invoca l’autorità di Eraclito – il principio razionale che governa il mondo, assunto dalla tradizione metafisica come l’unum necessarium. Per questo motivo parlare del logos implica, all’avviso di Girard alludere al sacro.

Da questo punto di vista egli individua una parentela fra filosofia e idea del divino, proprio a partire dai miti. Tuttavia anche in questo caso si dà una dialettica molto forte fra mito da un lato e demistificazione intrinseca ravvisabile in questi testi. Per Girard infatti tale violenza originaria esplicata nell’assassinio fondatore costituisce il principio strutturante di quella che lui definisce ragione rituale, la cui struttura secondo il logos rinvia però a una ripetizione sistematica di un mito di origine. In tal senso possiamo concludere che il pensatore avignonese procede a una lettura religiosa del filosofico che alla luce dei miti assume la forma del binomio sacro-violenza, evidenziando fra i due termini una sorta di communicatio idiomatum.

Sulla base dei miti e di questa particolare ermeneutica critica, Girard si avvicina via via alla comprensione del kerygma cristiano che egli vede come definitivo congedo dalla radice del sacro violento e come smascheramento dell’istanza sacrificale, per la prima volta con l’evento della Rivelazione di Dio in Gesù di Nazaret chiamata con il suo vero nome di assassinio, a sancire definitivamente l’innocenza della vittima.

Alla luce della scienza dei miti le Scritture fungono da vera e propria demitologizzazione. Un’affermazione come questa è notevole, in quanto il pensatore avignonese ravvisa proprio nelle Scritture ebraico-cristiane quel nucleo demistificante del sacro inteso come ambivalenza di tremendum-fascinans. Potremmo quindi affermare come il retaggio biblico costituisca all’avviso di Girard una riserva critica per mettere a nudo da un punto di vista scientifico la violenza vittimaria. Disprezzati dal mondo scientifico, in un’epoca prettamente dominata dall’intepretazione strutturalista (Girard risulta essere in opposizione dialettica a Levi Strauss), i Vangeli hanno descritto e previsto tutto il processo di demistificazione del sacro compiuto poi dalle scienze moderne, e hanno smascherato ed esposto due millenni prima il meccanismo segreto che fonda la religione, la società, la cultura, profetizzando la desacralizzazione moderna.

Paola Mancinelli

(continua)


 
 
[ Indice] [ Sommario] [ Archivio] [ Pagina principale ]