TEODICEA / 10 |
Un Dio illuminista |
Alcune prospettive teologiche, per tenere insieme la bontà e l’amore di Dio con la sua onnipotenza, ne hanno sacrificato la comprensibilità e conoscibilità, rifugiandosi di fatto nell’imperscrutabilità e nella reductio in mysterium: appellandosi, com’è avvenuto anche recentemente in occasione della tragedia di S. Giuliano, alla volontà di Dio che sovrintenderebbe a fumosi, misteriosi e inesplicabili disegni divini; così facendo, di sottobanco tentano di giustificare anche la sua onniscienza. Noi invece siamo per la riduzione kenotica della potenza, ma tale sin dall’inizio e non in seguito a una decisione divina di autolimitarsi, autotrattenersi e autoritirarsi: ad es. se uno è in grado di salvare una persona che sta per annegare e non lo fa, anche se ha deciso da tempo di non intromettersi in tali faccende, agli occhi della coscienza morale permane la gravissima omissione di soccorso. Il fatto del non-intervento di Dio nel mondo e nella storia a livello materiale, molecolare ed energetico, è per noi di un’evidenza solare: e la ragione non è a nostro avviso perché non vuole, o meglio non ha voluto sin dall’inizio prendendo questa decisione irrevocabile. Le combinazioni in teoria sono quattro: vuole e può (contraddetta dall’esperienza), può ma non vuole (soluzione della metafisica classica), forse vorrebbe ma non può (soluzione che preferiamo), non vuole e non può (soluzione, direi, da scartare perché allude a una certa insensibilità o apatia). Dio non lo fa perché non può, perché non è in grado di farlo: abbiamo quindi una kenosis, ontologica e metafisica, del potere divino. Tramonto della superpotenza onnisciente Ciò non toglie la validità del progetto, ossia l’idea di un disegno divino nella storia del cosmo e dell’evoluzione del vivente: trattasi comunque di una storia, con tutti i suoi aspetti anche contingenti e casuali, che quindi poteva anche andare diversamente; l’evoluzione è assolutamente libera sin dall’inizio, almeno a partire dal big bang. Certo uno dei contenuti fondamentali della credenza in Dio è che vi sia una Mente e uno Scopo dietro la storia dell’universo, e che l’Uno sia la base della speranza. Non possiamo essere un fortuito sottoprodotto della lotta per la vita; abbiamo un mondo il cui potenziale di fecondità è espressione di un fine divino. Certamente c’è stato uno slittamento dal progetto/disegno imperniato sulla realizzazione diretta da parte di Dio (creazionismo) al progetto/disegno inserito nella potenzialità logica e intelligente della natura. La probabilità di avere vita è massima (100%), leggermente inferiore quella della vita intelligente e personale; ma nella nostra ipotesi non sarebbe concesso, neppure alla divinità, di conoscere in anteprima i singoli dettagli e il tempo esatto del loro avverarsi; Dio, in quanto essere sommamente intelligente, ha previsto a grandi linee il che e il come, ma non il dove e il quando, perché non è un indovino chiaroveggente. L’infinità dell’universo, coi suoi miliardi di miliardi di stelle e pianeti, non è uno spreco, ma la condizione di possibilità per avere probabilità 1, ossia la quasi certezza dell’avvento della vita intelligente e personale. Avremmo quindi anche una kenosis, sempre strutturale e originaria, della conoscenza divina, della sua prescienza ed eventuale chiaro- veggenza del futuro; ovvero della concezione mitologica secondo cui, nella visione statica dell’eternità classica a partire da Agostino e da Boezio, l’intera storia cosmico-umana sarebbe “immediatamente” presente all’occhio divino. Ma l’evoluzione non è il risultato della “sola” interazione tra caso/contingenza e necessità/destino: in essa abbiamo anche e soprattutto libertà, potenzialità, tendenza a una complessità crescente, capacità di una progressiva informatizzazione (che significa logica, intelligenza, e alla fine anche coscienza). La meccanica quantistica ha riportato nella stessa fisica il concetto di potenzialità (che prima sembrava relegato nella filosofia: è lo stesso Heisenberg che collega le onde di probabilità della meccanica dei quanti col concetto aristotelico di potentia). È stato introdotto nella scienza qualche cosa che sta a metà strada fra l’idea d’un evento e l’evento reale, uno strano tipo di realtà fisica a metà fra possibilità e realtà. La teoria quanto-meccanica ci ha insegnato che le probabilità (con le relative potenzialità di passaggio dal possibile al reale) sono una cosa molto più nobile e seria del plurisecolare disprezzo che la filosofia, drogata dal concetto di necessità, ha sempre nutrito per il caso e il contingente: in tal modo vengono assicurate praticamente tutte le possibilità, che prima o poi diventano effettuali, evitando così la ripetizione all’infinito di poche sequenze e strutture identiche. Il calcolo delle probabilità non si riduce a un banale conteggio di frequenze relative; l’originalità dell’ontologia di Heisenberg consiste nell’unificare potenzialità e causalità meccanica. Giunti a questo stadio del nostro cammino, ci rimangono almeno 4 punti o problemi da trattare: 1) il problema del male morale (o inferto, quello che l’uomo malvagiamente compie); 2) la kenosis della (onni)potenza; 3) la kenosis della (onni)scienza; 4) la questione del male non morale, quello subìto, come le catastrofi naturali e la malattia; quest’ultimo va a mio parere trattato alla fine, o comunque dopo la doppia kenosis suddetta. Libertà e peccato La sofferenza nel mondo è tale da poter indurre nella tentazione di pensare che una minore libertà sarebbe un giusto prezzo da pagare per avere mali minori. Ma avremmo veramente preferito essere degli automi? Il celebre argomento del libero arbitrio, in relazione al male morale, asserisce che un mondo con la possibilità di individui peccatori è meglio di uno di macchine perfettamente programmate. I percorsi del male umano sono tanti e tali da non permettere di affermare senza un brivido una cosa del genere, ma io credo che nondimeno la difesa del libero arbitrio tenga; soprattutto se unita strettamente all’apologia del libero sviluppo almeno a partire dal tessuto spazio-temporale anteriore al big bang, secondo cui un mondo che viene lasciato essere in tutte le sue possibilità di autorealizzazione è meglio del teatro dei burattini di un tiranno cosmico. Come ci ha insegnato Heidegger, il lasciar-essere è infatti molto più originario della nozione di possibilità, perché il possibile, che sembra il primo termine di riferimento della libertà, in realtà può essere tale solo se è lasciato essere. A questo livello la libertà del possibile non sta ancora nel poter scegliere o non scegliere (oppure scegliere questo o quello) ma nel lasciar essere l’ente per quello che è. La doppia apologia del libero arbitrio e del libero sviluppo ci forniscono quindi una consolazione razionale legittima, anche se modesta, suggerendo che la dolorosa asprezza del mondo non sia arbitraria, ma rappresenti piuttosto l’ineluttabile lato «oscuro» di altri beni. Sembra che nella sua stessa disposizione comportamentale l’essere umano, proprio in quanto tale, mostri di propendere verso azioni in cui l’io è fortemente centrato su se stesso (egocentricità). Tra queste inclinazioni le più forti sono: il bisogno o desiderio di ricchezza materiale (avidità), di potere politico, di piacere sessuale (concupiscenza), di riconoscimento sociale (orgoglio). Il loro comune denominatore sta nella disposizione di fondo, che è egoistica o egocentrica, nella tendenza quindi a vedere nel soddisfacimento dei propri bisogni l’unico o il supremo fine dell’azione. Nel corredo biologico della disposizione comportamentale umana, ma anche animale, troviamo presenti pure inclinazioni di tipo altruistico. Sembra però che spesso prevalgano quelle di tipo egoistico, seppure non sempre riferibili esclusivamente agli interessi individuali ma anche a quelli del suo gruppo sociale, classe, etnia o nazione d’appartenenza. Tale disposizione fondamentale, questa specie di eredità che deriva per via collettiva, è certamente contenuta nella dottrina del peccato originale, sino a costituirne un elemento centrale. Tuttavia, secondo la nostra impostazione, le conseguenze del peccato originale non sono più da intendersi come giusta pena per un peccato storicamente commesso alle origini, bensì quale disposizione di una natura umana che è uscita dalla sua fase di sviluppo animalesco e che, per quanto ne sappiamo, non è mai esistita priva di una disposizione del genere. Il «peccato originale» allora non viene interpretato come una catastrofe che si sarebbe verificata ai primordi della storia umana, bensì quale punto di partenza dell’evoluzione del genere umano, cioè come la disposizione primariamente ego-centrica che si dovrà vincere nel corso del processo di maturazione spirituale. Naturalmente non è più il caso di usare termini come «colpa» e «peccato». Non si potrà dunque più, sulla scorta della tradizione agostiniana, continuare a addossare la «colpa» di questa disposizione al fallo intenzionale della prima coppia umana. Detto altrimenti, il «peccato dei progenitori» non è il peccato di due personaggi storici (Adamo ed Eva), ma la via imboccata dall’evoluzione (fisica, poi chimica, quindi biologica), un’evoluzione assolutamente libera: il che significa senza alcuna intromissione molecolare ed energetica da parte di Dio, ma anche senza alcuna fantomatica «causalità trascendentale». Quest’ultima semmai si dà solo nell’inizio-origine, comunque molto prima del big bang del nostro universo, come dono/avvento della temporalità informatizzata, come «creazione» dell’essere sempre più informatizzabile, come progettazione della futura vita. Dio ha avuto delle alternative? In uno schema tradizionale si porrebbe anche la riflessione seguente: così Dio, senza poter interpellare gli uomini e gli animali, per essi deve scegliere fra i diversi tipi di mondo nel quale essi vivranno: tra un mondo nel quale si soffrirà poco, ma disponendo anche di scarse possibilità creative, e un mondo nel quale c’è sofferenza insieme alla possibilità di fare molto bene. Quale sarà la scelta di Dio? Per entrambe le alternative depongono buone ragioni: per molti infatti si regge l’alternativa di fatto esistente, quella più eroica, mentre per altri un Dio buono e onnipotente avrebbe dovuto crearci insieme a una natura e a un ambiente che ci consentano libertà di scelta solo tra diversi beni, non però tra bene e male. Ma in un sistema libero sin dall’inizio Dio non ha scelto un bel nulla! Se non di dare origine a un sistema assolutamente libero sin dai suoi esordi (universo, mondo, materia, natura), affidandosi al rischio della libertà. Alla natura in particolare, già dotata di logica e di libertà anche se in forme minimali, viene restituita la sua sussistenza in proprio; ne consegue che in tale ambito la natura, con le sole sue forze, è in grado di produrre l’evoluzione e quindi la necessaria informatizzazione; e dato che la vita è in-formazione, appartiene perciò alla natura dell’essere, o all’essere della natura, puntare verso la vita, e una vita sempre più complessa e informatizzabile. Mauro Pedrazzoli (continua) |