Editoriale |
È stata impressionante la marea di folla che ha reso l’ultimo omaggio alla salma di Giovanni Agnelli al Lingotto, durante l’intera giornata antecedente ai funerali sino all’alba del giorno delle esequie avvenute nel duomo di Torino (anche qui il flusso è iniziato al mattino presto, con la cerimonia stabilita per le ore 10). All’incirca un torinese su tre ha visitato la camera ardente, pur sapendo in partenza di dover fare una coda di almeno tre ore, al freddo, e per alcuni in piena notte; quelle stesse persone che, qualora dovessero attendere 15 minuti davanti ad uno sportello in banca o in posta, molto probabilmente sbufferebbero nevrasteniche. C’erano circa 2000 persone anche alla messa di trigesima il 24 febbraio. Oltretutto, uno che muore a 80 anni non costituisce una tragedia particolarmente funesta e terribile (come invece lo sono state quelle del figlio e del nipote), tale quindi da uscitare una peculiare commozione universale. Ma allora, come si spiega questo fenomeno a prima vista così anomalo? Ritengo che il personaggio storico concreto sia quasi irrilevante: ossia quel che Agnelli può aver fatto nel bene e nel male come presidente della Fiat, di notevole e socialmente utile, o di errato e di ingiusto. Quel che conta è il fatto di essere il personaggio italiano più famoso nel mondo (per la verità era il secondo dopo Enzo Ferrari): equivalente quindi ad un re, ad un monarca, ad un Papa, ad un principe, come Diana o la regina d’Inghilterra. Decisiva è la grandezza, più o meno nobile, ingigantita dalla ricchezza e dal potere, che nel momento sacralizzante della morte si stacca dalla sua fragile esistenza mortale. Il magnate-monarca è particolarmente atto ad incarnare in sé l’unità del popolo, bisognoso di identificazione e appartenenza; l’Avvocato ha coperto un vuoto, anche per l’assenza di figure alternative: i vari presidenti della Repubblica italiana sono riusciti a stento nell’impresa a prescindere dalle loro qualità, forse perché in carica solo per sette anni, e forse soprattutto perché eletti democraticamente, senza quindi l’alone sacrale della monarchia dinastica (in questo senso gli Agnelli sono una dinastia quasi regale). Il fenomeno quindi ha le sue radici principalmente nel desiderio umano di identificarsi in una figura eccelsa, di proiettarsi in essa soddisfacendo il proprio innato e ancestrale bisogno di appartenenza ad una comunità, ad un corpo, ad un gruppo; è la stessa funzione svolta nell’antichità dagli avi e capostipiti primordiali, che riassumevano e integravano in sé l’intero popolo, tribù o etnia. Il bisogno di identificazione e appartenenza in sé è legittimo; ma se si rinuncia definitivamente ad un io già di per sé frammentato e fragile, se l’identità personale è ormai sotto i livelli di guardia, tale proiezione viene ad essere, come direbbe Heidegger, una deiezione sospetta e quasi alienante, tipica dell’esistenza inautentica, come la chiacchiera e la curiosità. Fondamentale in tale quadro è proprio l’ondata della massa; nello stato di irrilevanza e di indistinzione («Ognuno è gli Altri, nessuno è se stesso»), il Si (impersonale e neutro) esercita la sua tipica dittatura: «ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; vediamo e giudichiamo come si vede e si giudica»; si fa e si dice quel che tutti fanno o dicono, comportandosi secondo i canoni della «pubblicità» (nel senso lato di opinione pubblica e industria culturale). Non il «se stesso» autentico, ma il si-stesso impera incontrastato: il Si prescrive la situazione emotiva; esso stabilisce che cosa si “vede” e come si “vedono” le cose (citazioni sparse dalle pagine immortali di Essere e tempo). Paradossalmente, se non ci fosse stato l’annuncio dei media circa l’incipiente grande afflusso, con il preavviso della coda, di fronte alla prospettiva di essere in quattro gatti non si sarebbe mosso quasi nessuno. m.p. |