RISORTO O VIVO NEL RICORDO? / 4 |
Le apparizioni in Galilea |
Qualunque buon lettore dei vangeli, e per «buon lettore» intendiamo chi legge il testo con attenzione per capire cosa il testo dice e non chi lo legge di corsa perché sa già da sempre quello che lui vuole sentirsi dire, si rende facilmente conto che i racconti relativi alla resurrezione non hanno lo stesso valore testimoniale di quelli della passione e che la possibilità di mettere tra loro in relazione e confronto le narrazioni evangeliche a proposito degli eventi della resurrezione, proprio come per quelli della nascita, viene meno, e ogni evangelista procede per proprio conto, secondo la propria prospettiva teologica, senza possibilità di confronto e di riscontro con gli altri. Del resto già Luca, che tra gli scrittori del Nuovo Testamento è quello più preoccupato di dare almeno un qualche ordine al materiale testimoniale ricevuto, lo afferma con chiarezza. Mentre tutti hanno potuto vedere o ricevere molteplici attestazioni che Gesù ha ben operato ed è stato crocefisso, «non tutto il popolo», bensì pochi, «prescelti da Dio», hanno beneficiato della sua apparizione, e precisamente: «noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la resurrezione dai morti» (Atti 10,37-41). Luca non fa che ribadire quanto chiunque può verificare e cioè che tutti i racconti di apparizione hanno come spettatori discepoli o discepole. Tutti comportano una confessione di fede e nessuno denuncia la presenza di personaggi estranei al gruppo dei seguaci. Non l’esegesi specialistica, ma il testo scritturale ci dice, che mentre i racconti della vita pubblica e della pubblica morte di Gesù ci offrono la possibilità di un’indagine storica e critica volta alla ricerca dei fatti soggiacenti all’annuncio di fede, i racconti relativi alla resurrezione si trovano da subito e interamente all’interno di una dimensione di fede. Infatti solo chi alla fede è preventivamente orientato da Dio stesso, oltre che da una lunga pratica di ascolto e di sequela del Nazareno, può sperimentare l’evento che li ha originati, sperimentarlo e testimoniarlo, trasmetterlo da credente a credente, senza possibilità di mediazione e di sostegno apologetico, storico o naturalistico, pena il declassamento della testimonianza a empiria, della fede ad assenso razionale, dell’evento testimoniato, da apertura a un mondo senza morte, a ricaduta nella nostra storia mortale. Marco, l’apparizione taciuta Ma torniamo ai racconti evangelici, iniziando da quelli che individuano nella Galilea il luogo delle apparizioni del Risorto. Nella loro irriducibile diversità gli evangelisti si diversificano non solo sul come e sul quando, ma anche sul luogo delle apparizioni. Marco e Matteo scelgono, appunto la Galilea, Luca e Giovanni, Gerusalemme. Il che non si può spiegare col ricorso a fatti storici diversi, ma solo con la diversità dell’interpretazione teologica dell’evento di fede. Già lo sappiamo: il vangelo di Marco non ci presenta apparizioni. Il suo «Vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio» (1,1) termina al versetto 8 del capitolo 16, con le donne che fuggono senza dire nulla a nessuno. I versetti che seguono con la rapida sintesi di alcuni racconti di apparizione, ripresi da Giovanni e da Luca, sono un’aggiunta evidente e tardiva, che esamineremo oltre. Qui ci basti osservare che la mancanza di un qualsivoglia incontro col Risorto non fa affatto passare sotto silenzio l’annuncio della resurrezione. È nello stile letterario e nella prospettiva teologica di Marco enunciare i punti salienti del suo messaggio per mezzo di un paradosso o, se si vuole, attraverso la figura retorica dell’ossimoro, che dice l’indicibile unendo tra loro in un’unica metafora due contrari. Il primo a confessare la divinità di Gesù non è forse il capo dei suoi torturatori, allorché esclama «Veramente quest’uomo era figlio di Dio», proprio nel momento culminante della sua sconfitta («vistolo spirare in quel modo», 15,39)? Il suo vangelo non inizia con una voce che grida là dove nessuno può udirla (1,3)? Perché meravigliarsi se anche il suo annuncio finale «È risorto!» viene proclamato, mettendo in scena la sorpresa, la paura, la fuga che lo bloccano nel muto silenzio? Non è vero che «un bel tacer non fu mai scritto», e questo è il più bel tacere che mai sia stato scritto, il più sonoro e rivelativo dei taceri, il più biblicamente fedele alla teologia dell’indicibilità del Santo Nome, all’inesprimibilità della suprema teofania. A Marco dunque non fa difetto il racconto dell’apparizione, non viene a mancare il Risorto. Né potrebbe essere altrimenti, visto che tutta la tradizione cristiana che lo precede ne fa il centro del proprio messaggio. L’uno e l’altro sono presenti, ma nella forma tipica della teologia di Marco: l’annuncio non del tutto compreso, la teofania rimasta velata. Così è anche del Crocefisso risorto. Esso non è dove lo si va a cercare. Non è nel luogo dei morti. È risorto. Non solo, ma ha ripreso il cammino, pronto a manifestarsi ai suoi e a «precederli» in Galilea. Marco ci dice che si può fare propria la fede nel Risorto e nella sua capacità di esserci compagno sulle vie del Regno, vivo alla nostra guida, senza ulteriori conferme e ulteriori verifiche materiali e spirituali. L’incontro è uno solo, quello di chi si mette alla sua sequela ed è un incontro forte, totale e risolutivo. È l’incontro col suo vangelo, che è anche il suo corpo, la sua piena identità, perché è «il vangelo (parola e verità) di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (1,1). Matteo, l’apparizione attestata Matteo non segue l’ellitticità di Marco, la sua radicalità kerigmatica e teologica. Non lo segue nel racconto della visita alla tomba e in quello delle apparizioni. Ma non lo segue fin dall’inizio del suo vangelo e poi lungo tutto il suo sviluppo. Matteo attinge ad altre fonti, ma anche quando si rifà quasi testualmente alle pagine di Marco, le utilizza in un’ottica narrativa e teologica diversa. Matteo non ama i paradossi e neppure gli ossimori, ama i racconti esemplari. Modella la sua narrazione sullo schema della storia della salvezza anticotestamentaria e finalizza tutto alla dimostrazione che quanto accade a Gesù accade per «compiere le Scritture». Per lui Gesù è insieme il nuovo Mosè e il vero germoglio della radice di Iesse, l’Emmanuele della profezia regale di Isaia. Ce lo dice coi racconti dell’infanzia. Ce lo conferma nello sviluppo del suo vangelo, coi cinque grandi discorsi di ammaestramento. Ce lo ribadisce nel racconto della passione e in quello della resurrezione. Non possiamo per brevità che fermarci a quest’ultimo, senza trascurare però che esso si intreccia strettamente a quello della strategia, messa in atto dai sacerdoti/farisei, per screditarlo, col risultato che il racconto della resurrezione finisce col fare corpo unico col racconto del primo tentativo di smentirla. Il che contribuisce a farne un piccolo dramma teologico. Il racconto comincia coi capi dei Giudei che primi pongono il problema del ritorno in vita di Gesù e si preoccupano di mettere delle guardie e una bella pietra a custodia del sepolcro. Continua con le donne che vanno al sepolcro, del tutto dimentiche d’ogni promessa di resurrezione. È a questo punto che accade un terremoto, scende un angelo sfolgorante, rotola la pietra, tramortisce le guardie e, rassicurate le donne, annuncia che il Crocefisso è risorto, invitandole a portare la notizia ai discepoli insieme all’esortazione a recarsi in Galilea dove egli si manifesterà (27,62-28,8). L’inciso che segue, con il Risorto che intercetta le donne per ripetere le parole dell’angelo, non aggiunge nulla. Solo disturba lo sviluppo naturale del racconto, contraddicendo quanto è appena stato detto (28,9-10). Un buon critico letterario lo considererebbe un’aggiunta per attribuire a Matteo almeno un’apparizione a Gerusalemme e armonizzarlo con Luca. Noi lì lo lasciamo. Intanto il racconto ci riporta alla guardie che, riavutesi, vanno a riferire l’accaduto ai Giudei e ricevono un lauto compenso per dichiarare: «I suoi l’hanno rubato mentre dormivamo». «Così – aggiunge Matteo a margine – questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino a oggi» (28,11-15). È apologia, ma è apologia condotta con arte. Apologia che mentre si propone di smentire un’interpretazione della tomba vuota che l’evangelista ritiene falsa, lascia del tutto intatto il mistero del fenomeno della resurrezione e della condizione preternaturale del Crocefisso risorto. L’invio e la missione Matteo non aggiunge altre parole. Semplicemente contrappunta l’artefatto rifiuto a credere degli oppositori con la lineare e diretta rivelazione del Risorto ai credenti e con la loro disponibilità all’ascolto. Tanto nell’interpolata apparizione alle donne, quanto nella finale, austera e solenne apparizione agli undici, non si sofferma un attimo sulla configurazione del corpo risorto. E il cenno al dubbio residuo di alcuni discepoli non è riferibile, come vedremo in Luca e Giovanni, al problema di identificazione di Gesù, ma all’intrinseca difficoltà del credere. Tutta la scena finale del vangelo ha le caratteristiche della teofania tesa alla missione. I discepoli vanno al luogo fissato da Gesù, un alto monte, come quelli del Sinai, delle beatitudini e della trasfigurazione. Si prostrano, pur col dubbio di alcuni, e Gesù parla per annunciare loro che gli «è stato dato il potere in cielo e in terra» e che con questo nuovo potere li manda a tutte le genti, perché le battezzino «in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro quanto lui ha insegnato». Parla da Dio, o meglio da chi è ormai presso Dio, ma al tempo stesso aggiunge: «Ecco io sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28,16-20). Risorgere non è per Matteo solo essere riportato in vita, riacquisire tutte le proprie capacità corporee. Risorgere è soprattutto, se non esclusivamente, essere elevato a Dio e avere da Dio il potere di diventare l’Emmanuele, il «Dio con noi» per tutte le genti. A coloro che non sanno riconoscere Dio quando si rivela nel bambino della stella, nel promulgatore della legge di giustizia e di pace, nel custode dei sofferenti e degli umili, nel giusto crocefisso, interessa speculare sul corpo del Cristo per eliminarlo o falsificarne la sorte. Ai credenti spetta adorarlo e dare obbediente ascolto alla sua parola. È poco? È riduzionismo e demitizzazione? È vangelo allo stato puro. O almeno è vangelo di Marco e di Matteo. E, alla fin fine, vedremo, di Luca e di Giovanni, per non dire di Paolo, che già sappiamo. Vangelo con un unico messaggio, anche se a noi trasmesso per mezzo di percorsi narrativi e strategie teologiche diverse. Aldo Bodrato (continua) |