DISPUTE SIMBOLICHE
Le radici laiche dell’Europa

La nostra vita è percorsa da simboli. Ogni simbolo trae la sua forza dall’immensa distanza tra la sua irrilevanza materiale (un pezzo di stoffa colorato, una statuetta di legno e metallo) e la grandezza della realtà immateriale che esso rappresenta (l’appartenenza nazionale, o ideale, o religiosa). Un simbolo è un segno, qualcosa che sta per qualcos’altro. Chi propone il simbolo, vi «appone insieme» la proclamazione di un’idea.

Accade anche che il simbolo progressivamente si distacchi da ciò che esso significa, che gli venga attribuita una vita propria, diventi significato anzichè significante, fine anziché mezzo, o mezzo per altri fini. 

Un simbolo fornisce una evocazione rendendo più accettabili, attraverso la raffigurazione, concetti sacri e dogmi difficilmente accessibili alla ragione. Forse per questo, ad esempio, si suole associare una colomba al Santo Spirito divino, e forse nasce di qui l’interdizione biblica del secondo comandamento «Non farti scultura alcuna, né immagine alcuna ...» (Esodo 20), per impedire che la rappresentazione distolga dalla realtà.

Chi si pone di fronte a un atto simbolico, reale o perseguito, deve allora cogliere quale sia la connessione fra segno e significato, senza fermarsi al banale richiamo «Sono cose simboliche, nominalistiche, badiamo invece alla sostanza».

Ogni democratico non può non percepire la bellezza etica del gesto simbolico di Manolis Glezos, che nel 1941 rischia la vita per strappare dall’Acropoli di Atene la bandiera del nazismo oppressore.

Carta dei Diritti e Costituzione 

Quando invece, come periodicamente e ossessivamente ci viene riproposto, qualcuno vuole inchiodare il crocifisso in ogni luogo pubblico, è naturale ribellarsi razionalmente non a un gesto simbolico perché simbolico, ma perché del simbolo si abusa, per farne strumento di imposizione, per una affermazione di presunta superiorità, in definitiva una offesa simbolica al reale significato del simbolo. Un’inchiesta televisiva ha dimostrato, pur nella sua superficialità, quanto i più convinti assertori del crocifisso fossero lontani, nella loro elementare ignoranza, dalla cultura religiosa che proclamavano di difendere. Sostenitori di una «Italia cristiana, mai musulmana» si inceppavano nell’elencare i dieci comandamenti.

La forma più alta e diffusa di simbolo è la parola. Usare o non usare una parola equivale ad accettare o rifiutare un simbolo. E così, con una periodicità insistente e parallela, ci viene riproposta, accanto alla disputa sul crocifisso, la richiesta di inserire nella futura Costituzione dell’Unione Europea, un riferimento esplicito alle radici cristiane dell’Europa.

Le premesse: dall’ottobre 2000 esiste la «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea», elaborata da una Convenzione di 62 membri (parlamentari europei e nazionali e rappresentanti dei governi e della Commissione Europea). La Carta viene approvata in novembre dal Parlamento Europeo e proclamata dal Consiglio di Nizza nel dicembre. La Carta è il nucleo su cui si svilupperà la futura Costituzione dell’Ue, alla cui stesura sta ora lavorando una Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing, che nell’ottobre 2002 ha presentato un «Progetto preliminare di trattato costituzionale».

La Carta non contiene alcun riferimento a entità soprannaturali né a istituzioni religiose, dichiarando nel suo Preambolo che l’Unione è «consapevole del suo patrimonio spirituale e morale». Questa formula è stata approvata in contrapposizione alla richiesta di alcuni membri democristiani bavaresi di menzionare tra i caratteri fondamentali dell’Europa la sua «eredità cristiana». Dopo Nizza, diverse voci di istituzioni cattoliche e lo stesso papa elevarono proteste e iniziarono un’azione di pressione, tuttora in corso, sulla Convenzione, perché queste affermate radici cristiane rientrino nel testo costituzionale definitivo. 

Senza addentrarci in una gigantesca quanto inconcludente analisi storica su Europa e cristianesimo, ci limitiamo qui a tentare un approccio ragionevole alla questione. Se quindici comunità nazionali si uniscono a formare una comunità sovranazionale quale è l’Ue, e intendono darsi una legge costituzionale comune, questa non potrà che nascere dall’applicazione del metodo del massimo comune denominatore, che sappiamo essere l’insieme di tutti gli elementi comuni ai contraenti, attribuendo per ognuno degli elementi il minimo peso con cui esso appare nelle diverse costituzioni nazionali. Solo così è garantito che ogni contraente possa riconoscerci nella Carta comune e nessuno possa lamentare nei confronti degli altri contraenti una ineguale violazione o limitazione dei propri principi.

Vediamo che già nella «Carta dei diritti» è stato applicato questo principio: tra i suoi 54 articoli, ve ne sono sette in cui, enunciato un diritto fondamentale, se ne rimandano i modi di esercizio e garanzia alle leggi nazionali. Non casualmente, questi sette casi si riferiscono ad aree su cui non esiste un consenso o una prassi unanime: art. 9, diritto di costituire una famiglia; art. 10, diritto all’obiezione di coscienza; art. 14, diritto all’istruzione dei figli secondo le convinzioni dei genitori; art. 16, libertà d’impresa; art.34-36, sicurezza sociale, servizi sanitari ed economici.

Le Costituzioni nazionali in Europa

Dovendo quindi decidere se è bene o no che la Costituzione Europea faccia riferimento al cristianesimo o a Dio o a istituzioni religiose, dobbiamo partire dall’analisi delle quattordici Costituzioni nazionali dei quindici paesi membri (come è noto, il Regno Unito non ha una Carta costituzionale scritta).

Da questa analisi comparata si vede che tra i quattordici testi, undici non contengono alcun richiamo a enti soprannaturali o concetti religiosi. Tre paesi (Germania, Grecia e Irlanda) fanno eccezione, con toni e modi diversi.

La Costituzione tedesca dichiara che i popoli di Germania hanno adottato la loro Costituzione «consci della loro responsabilità di fronte a Dio e agli uomini».

La Costituzione irlandese del 1937 si apre «Nel nome della Santissima Trinità, da Cui viene ogni autorità e a Cui, come scopo finale, devono riferirsi tutte le azioni sia degli uomini che degli Stati». Prosegue dichiarando che «Noi, popolo d’Irlanda, riconoscendo in umiltà tutti i nostri obblighi al nostro Divino Signore Gesù Cristo .... Adottiamo, attuiamo e ci diamo questa Costituzione».

Non è da meno la Costituzione greca del 1975: «Nel nome della Santa e Consustanziale e Indivisibile Trinità, la Quinta Assemblea Costituzionale di Grecia vota...».

Il richiamo a Dio attraeva anche Giorgio La Pira, che l’avrebbe voluto come apertura della nostra Costituzione repubblicana. Scalfaro ribattè, laicamente, che Dio non poteva essere oggetto di voto, e comunque la proposta non fu accolta, proprio in quanto non comune alle tre correnti ideali della Costituzione, liberale, marxista e cattolica, emblematicamente riassunte nelle tre firme di De Nicola, Terracini e De Gasperi.

Per quanto riguarda i rapporti tra le istituzioni statali e le chiese (tema che forse spiega l’insistenza della chiesa cattolica per ottenere un «riconoscimento», più che il richiamo alle radici cristiane), esistono situazioni diversificate, che riflettono la complessità e conflittualità delle vicende storiche nazionali. 

Tutte le Costituzioni riaffermano la libertà religiosa e la non discriminabilità dei cittadini per motivi di fede, ma con alcune particolarità. 

L’articolo 7 della nostra Costituzione è ben noto. La Danimarca riconosce come chiesa nazionale la Chiesa Evangelica Luterana, a cui garantisce il supporto dello Stato, e di cui il re deve essere membro. La Grecia stabilisce con un articolo della sua Costituzione che «la religione prevalente è quella della Chiesa Cristiana Ortodossa d’Oriente» e dedica un comma alla proibizione di alterare il testo delle Sacre Scritture.

La Costituzione spagnola impone al potere pubblico di mantenere relazioni di cooperazione con la Chiesa Cattolica e le altre denominazioni, ma ribadisce che «nessuna religione avrà carattere statale». 

La Francia include tra gli attributi della Repubblica la parola laïque. Il Portogallo sancisce la separazione delle chiese dallo Stato.

Da questa breve analisi non si può che constatare che qualsiasi riferimento a concetti o istituzioni religiose sarebbe estraneo allo spirito della quasi totalità delle carte costituzionali dei Paesi che si avviano a formare l’Unione Europea quale entità politica sovranazionale.

La laicità è ragionevolezza

Questo approccio ragionevole alla questione, basato più sul metodo che sulla sostanza delle affermazioni (chi mai sarà in grado di affermare o negare in modo definitivo l’esistenza di radici cristiane nell’Europa di oggi, o che, ammessa una risposta positiva, queste radici costituiscano un valore unico e fondamentale da rivendicare?) costituisce una presa di posizione laica sul problema, e vuole ribadire che, se proprio si vogliono identificare le radici della democrazia europea, queste sono radici laiche.

Lasciamo la conclusione a una voce ragionevole del mondo religioso. Il movimento «Noi siamo Chiesa», in una sua Riflessione del luglio 2002, afferma che: «La democrazia vive di laicità concepita come il rifiuto di considerare qualsiasi religione o qualsiasi ideologia come portatrice di valori assoluti. La Costituzione di un’Europa democratica deve ispirarsi a questa laicità, cuore della cultura europea. Tutti i cristiani sono chiamati a contribuire alla costruzione di un’Europa autenticamente laica».

Gianfranco Accattino
 


 
 
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