LETTERE
Se Hitler un giorno...

Su «L’Espresso» del 30 gennaio è stato pubblicato un articolo di Sandro Magister dal titolo Addio Bibbia crudele, in cui vengono inteticamente esposte alcune idee di Enrico Peyretti sul tema della violenza nella Bibbia (cfr foglio 297 e 298). Alcuni lettori ci hanno mandato delle osservazioni critiche in particolare sulla sua concezione dell’inferno. 

Scrivo a proposito dell’“inferno” secondo Peyretti, semplicemente per rilevare che nella concezione da lui descritta, l’unica cosa certa che recepisco è che i tiranni e i potenti alla fine se la cavano sempre, di qua lo sappiamo già, ora pure nell’aldilà.

Il tutto finisce per produrre perfino effetti di grottesca comicità: ve l’immaginate un dialogo tra l’anima risanata di Hitler e i sei milioni di ebrei, del tipo: «Caro Adolf, in fondo non sei così male come credevamo», e il Fuhrer, finalmente pacificato e liberato dal demonio che certo lo ha posseduto: «Cari amici giudei, vorrei conoscervi tutti, so che siete tanti, ma non ci mancherà certo il tempo per fare amicizia...» e via dicendo magari sostituendo Hitler con Stalin e gli ebrei con i kulaki, ecc. ecc.

Una conseguenza certa della (nobile) utopia ultrapacifista peyrettiana mi pare la demolizione totale della giustizia divina e anche della speranza umana. Un poveraccio, un disperato oppresso dai potenti di turno non potrebbe neanche più alzare gli occhi al cielo invocando classicamente: ma se Dio è Dio, che almeno nell’aldilà... No, caro, tutti salvi e tutte anime felici e serene, pacificate. Un ottimo incentivo per i criminali, questa teologia.

Purtroppo siamo nati con il peccato originale, il che vuol dire che la coperta è corta, e non ci sono certezze o soluzioni finali (sic, questa mi è venuta spontanea) che noi uomini possiamo indicare come risolutive, senza cadere in qualche altro grave errore.

Fabio Cangiotti
 

Le nostre immaginazioni sull’aldilà sono ragionevoli e lecite, io credo, ma sono soltanto ipotesi. Comunque sia, io amo pensare che se le vittime di Hitler e Stalin un bel giorno potessero parlare in pace con quei due, ciò vorrebbe dire che quei due delinquenti sarebbero guariti dal loro grande male. Perché dispiacersene? Perché fare ironia? Li vogliamo delinquenti per sempre? Che vantaggio c’è? Il poveraccio oppresso dai potenti troverebbe soddisfazione nel vederli soffrire? Allora non è molto migliore di loro! E la giustizia che cosa è? «Fare giustizia non significa punire bensì risanare». Lo dice Desmond Tutu, vescovo anglicano di Città del Capo, di pelle nera, che ha sofferto la durissima violenta offesa dell’apartheid sudafricana, poi ha ideato e presieduto la Commissione Verità e Riconciliazione nel suo paese, che è una geniale progressiva risposta a quella violenza strutturale. Troverà quelle parole nel suo libro Non c’è futuro senza perdono (Feltrinelli, pp. 119-120), che è la storia sua personale e la storia del suo paese nel passaggio dal regime razzista alla democrazia. Un’esperienza pioniera di una giustizia riparatrice e non vendicativa. Lei crede che la speranza di salvezza per tutti, che è nel Nuovo Testamento, sia un incentivo per i criminali? La grande mistica musulmana Rabi’ah (II secolo dall’Egira, VIII dell’era cristiana) fu vista correre per strada con una torcia accesa in una mano e un secchio d’acqua nell’altra. Le chiesero cosa significasse questo. Rispose: «Voglio incendiare il Paradiso e spegnere l’Inferno, perché questi due veli all’amore di Dio spariscano, e i suoi servi Lo adorino senza sperare ricompense o temere castighi». Questo pensiero si è trasmesso nella tradizione mistica cristiana fino a santa Teresa d’Avila. Se io non faccio il male per paura dell’inferno, nell’inferno ci sono già. (e. p.)
 


 
 
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