Editoriale |
Scriviamo dopo lo scoppio della guerra, tentando un primo bilancio della mobilitazione per la pace e di indicare linee di condotta in grado di frenare il ritorno alle armi e di favorire una politica di composizione non violenta dei conflitti. Sappiamo di correre il rischio di ribadire principi già enunciati più volte e, al tempo stesso, di annacquarli nel tentativo di tradurli in discutibili e fragili, ma pur sempre necessarie, vie di mediazione storica. 1) Per la prima volta ad un’escalation di guerre l’opinione pubblica mondiale ha risposto con un corale rifiuto. È un segno da non sottovalutare, anche perché ha finalmente trovato sponda nella linea politica di qualche stato e governo, e incitamento, non equivoco, nei capi religiosi delle chiese cristiane (spesso timidi ed equivoci in proposito, soprattutto se si tratta di schierarsi contro i governi del proprio paese). Tale forza dell’opinione pacifista non va però dispersa e divisa in mille rivoli, ma deve cercare di canalizzarsi verso obiettivi politici realisticamente raggiungibili. 2) Il primo di questi obiettivi è favorire la ricostituzione di alleanze politiche ed economiche capaci di confrontarsi con gli Usa con credibile autorità e forza. Si tratta di lavorare per la creazione di un mondo multipolare, in grado di affrontare i problemi da più punti di vista e di dare voce agli interessi e ai diritti del maggior numero possibile di popoli. 3) Noi europei dobbiamo, dunque, impegnarci per l’unificazione politica, democratica, sociale ed economica e difensiva. Il tutto non è per contrapporci agli Usa, ma per smetterla di farci scudo della loro protezione e acquisire quell’indipendanza rivendicata a parole, ma sempre evitata per i costi e le responsabilità che comporta. Saranno inevitabili dei compromessi, perché bisognerà fare i conti con le tendenze atlantiste degli inglesi e coi problemi rappresentati dalla fragilità economica e democratica dei paesi dell’Est, con le differenze culturali e giuridiche della Turchia, col fascino ma anche con le enormi pesantezze della Russia. Bisognerà procedere con chiarezza di intenti e con prudenza, senza mai dimenticare che il fine dell’Unione Europea non è l’imitazione del sogno di potenza degli Usa e dell’Urss, ma la realizzazione e la diffusione pacifica dei valori su cui si fonda la sua tradizione democratica: la libertà individuale e collettiva, la giustizia sociale, l’eguaglianza tra uomini e popoli, il rispetto reciproco tra le persone, le culture e le fedi, la tutela dei diritti umani e il ripudio della guerra. 4) Il secondo di tali obiettivi è il rilancio dell’Onu, riformandone il funzionamento, abolendo per tutti il diritto di veto, ma anche trovando il modo di non contarsi per testa, ma in base alla reale rappresentatività demografica, economica e al reale peso degli stati nella politica mondiale (istituendo, ad esempio, una camera dei popoli accanto a quella degli stati). Naturalmente si tratta di una Onu messa in grado di agire anche con “corpi di pace” per la prevenzione e la risoluzione non violenta dei conflitti e, con una “forza di polizia” internazionale, adeguata per uomini e mezzi di repressione e di controllo. Il che è diverso da un’Onu che autorizza gli stati alla guerra o la gestisce in prima persona. 5) Nel dibattito su anti-americanismo e filo-americanismo, sarebbe bene sottolineare che il limite dell’una e dell’altra posizione sta nel loro carattere acritico e aprioristico, quasi si dovessero scegliere o rifiutare gli Usa per ragioni di fede. Molti trattano l’americanismo come una nuova religione. Così non deve essere. Chi porta argomenti a favore della politica del governoUsa e chi li porta contro deve misurarsi sugli argomenti stessi, non sulla propria emotiva adesione o rifiuto dell’America come stile di vita e di pensiero. Nel caso, si tratta di misurarsi con la questione se sia positiva o negativa la scelta da parte del governo americano dell’unilateralismo militare e della ricerca della propria egemonia nel mondo e quali siano le alternative possibili. 6) È importante difendere i principi ed averli sempre davanti agli occhi, quando si deve scendere dal dibattito ideale a quello politico e sociale, quando cioè li si deve tradurre in pratica nella dura e contraddittoria realtà della storia. È importante perché non bisogna tradirli e non bisogna adattarsi a soluzioni che consolidino lo status quo, adeguandosi al piatto realismo di chi dice che le cose non possono andare diversamente da come sono sempre andate. Bisogna però anche evitare di restare prigionieri dei principi e bloccarsi sulla pretesa di vederli realizzati tutti e subito. Essi indicano una meta. Ma tra il punto di partenza e quello d’arrivo ci sono necessariamente delle tappe intermedie, delle mete parziali. Bisogna individuarle, raggiungerle e consolidarle, prima di riprendere il cammino. 7) Sappiamo bene che alcune scelte pacifiste sono parziali e forse strumentali. Chirac, ad esempio, difende gli interessi economici e strategici della Francia, prima che quelli del bene comune. Così è anche di molti che amano il quieto vivere o che temono la guerra danneggi il loro benessere economico e i loro affari. Così è delle destre e delle sinistre estreme, che sono contro gli Usa per nazionalismo fascista o per internazionalismo comunista, ma che della pace non sanno che farsene. Da questi ultimi dobbiamo prendere le distanze. Con gli altri dobbiamo confrontarci e collaborare per gli obiettivi comuni, tra cui certo sta, oggi, al primo posto l’opposizione all’unilateralismo e al disegno egemonico di chi teorizza il proprio esclusivo diritto a decidere del bene e del male, a fare la guerra a tutti coloro che sono potenziali minacce per sé e per i propri interessi. 8) Il movimento pacifista si è diffuso e coagulato nel mondo anche per questo ed è riuscito ad imporre ai fautori della guerra almeno la finzione del pudore per le morti e le distruzioni. Oggi la guerra si ammanta di belle intenzioni, ma si vergogna della sua realtà; esibisce la potenza delle sue armi, ma nasconde gli effetti che provoca il loro uso. È segno evidente di una coscienza schizofrenica, che con una mano distrugge ed uccide, con l’altra ricostruisce e soccorre. È una coscienza prossima alla pazzia, che solo la conversione può risanare. Lavorare perché ciò accada, e saper attendere che questo travaglio dia i suoi frutti: anche questo fa parte delle grandi virtù della pace. 9) Un’ ultima considerazione sull’11 settembre, data continuamente richiamata per giustificare tutte le decisioni più unilaterali e violente di Bush. È stato indubbiamente un segno tremendo dell’odio montante del terzo mondo verso l’America, in quanto simbolo del primo mondo. Ogni nuova guerra non fa che alimentare questo odio, e potenziare e giustificare il terrorismo. Inoltre la reazione, ormai scomposta, degli Stati Uniti a questa tragedia ci fa capire che molti americani non si rendano conto che il loro dolore è solo parte di un più vasto mondo del dolore che tutti colpisce da sempre. Moltiplicando con la guerra l’offesa subita, rovesciando sugli altri con le armi la cornucopia della propria capacità di morte, non solo non riescono a far fronte alla propria sofferenza, ma ne provocano altra, in una spirale senza fine. Dall’unilateralismo della sofferenza, oltre che dalla volontà di potenza, «libera nos Domine!». [ ] |