RISORTO O VIVO NEL RICORDO? / 5 |
La manifestazione e il riconoscimento |
Le tradizioni che collocano l’apparizione del Risorto in Galilea, solo annunciata in Marco, vigorosamente attestata in Matteo, nulla dicono sulla nuova condizione del suo corpo mortale. Al più ne evocano l’assenza dal sepolcro; come a dire che ogni discorso sulla sua sorte è riassorbito dalla proclamazione della Resurrezione, dalla fede che il Crocefisso vive in qualità di Signore delle potenze del cielo e della terra, dalla prassi della continuazione della sua missione tra le genti. Le cose sono un po’ diverse per Luca e per Giovanni, che di apparizioni in Galilea sembrano non saper nulla, e preferiscono chiudere i loro vangeli nella Città Santa e nei suoi immediati dintorni. Essi fanno del riconoscimento fisico del Crocefisso risorto uno dei problemi cruciali della loro narrazione, anche se non lo enfatizzano. Soprattutto non separano i racconti che ce ne parlano da quelli che si presentano come proclamazione della resurrezione, dell’ascesa al Padre, e dell’invio in missione. Anzi a questi li subordinano, in quanto il loro fine è l’approfondimento teologico della fede e l’aiuto catechetico al lettore, non l’utilizzazione per improbabili verifiche empiriche della storicità dei fatti. Il tempo dilatato Tipico del narrare di Luca è spezzare i grandi eventi rivelativi in episodi diversi, per distribuirne il significato teologico in racconti più specifici e puntuali e favorirne la comprensione e l’assimilazione. Questo procedimento è evidente anche nelle pagine dedicate a quanto segue la morte di Gesù, tanto che il tema della resurrezione è illustrato da 53 versetti in Luca, 8 in Marco, 20 in Matteo, e 29 in Giovanni. Unico tra i quattro, Luca distingue poi tra resurrezione, ascensione al Padre, e discesa dello Spirito, assegnando a ciascuna di esse: tempi, luoghi e forme specifiche. È un procedimento narrativo e teologico di cui bisogna tenere conto nel leggere Luca, ed è un procedimento che il nostro evangelista realizza in due modi. Ora moltiplica i tempi, come nei primi due capitoli degli Atti, dove ipotizza quaranta giorni di permanenza del Risorto coi suoi, prima della salita al cielo, e un altro adeguato periodo di preparazione, prima della discesa dello Spirito. Ora concentra molti eventi in un unico lasso di tempo, opportunamente dilatato. È questa la scelta da lui operata nell’ultimo capitolo del vangelo, dove episodi, collocati in luoghi diversi, con diversi protagonisti, si concentrano in un giorno molto intenso che sfora nelle prime ore di luce di quello successivo. «Di buon mattino» le donne vanno al sepolcro, ricevono l’annuncio dei due angeli; informano i discepoli che non credono alle loro parole, mentre Pietro va a verificare di persona. «In quello stesso giorno» i due di Emmaus incontrano Gesù, senza identificarlo, e restano con lui fino a che «si fa sera»; quindi, riconosciutolo, tornano in gran fretta in città, dove apprendono che è apparso anche a Pietro e, insieme agli altri, assistono all’apparizione ufficiale, con tanto di nuovo riconoscimento, nuova istruzione, annuncio della missione e invito ad attendere sul posto l’investitura «in potenza dall’alto». Infine, probabilmente il mattino dopo, tutti sono condotti a Betania per contemplare la salita del Risorto al cielo. Elementi comuni a tali episodi sono: la valorizzazione della preparazione e dell’attesa di coloro che riceveranno la rivelazione e l’insistenza sul momento pedagogico e istruttivo che accompagna o segue la rivelazione stessa. Le donne, che vanno al sepolcro, prima trovano la tomba vuota, che le sconcerta, poi ricevono l’annuncio angelico, che non si limita a proclamare la resurrezione ma la chiarisce, richiamando l’insegnamento di Gesù in Galilea (24,3-8). Così è dei due di Emmaus. Essi manifestano al pellegrino, incontrato per via, le loro attese deluse e vengono da lui istruiti col richiamo alle Scritture. Lo riconoscono infine come il Crocefisso risorto all’atto dello spezzare il pane, nel momento stesso in cui egli scompare ai loro occhi (24,13-32). Il lettore, che da subito conosce l’identità del pellegrino, gode e beneficia, anche più dei due discepoli, della sublime lezione spirituale. Il suo cuore arde col loro cuore ad ogni parola del testo e si conferma nella fede. È un brano esemplare, una vera e propria guida al riconoscimento del Risorto nella vita e nell’incontro di comunione della Chiesa nascente. Ma non è un racconto originario. Luca lo ha creato e Luca lo ha inserito, con grande maestria pastorale, nel suo racconto di resurrezione. Originario è il richiamo successivo all’apparizione a Pietro, ed originaria, vale a dire probabilmente tradizionale per quanto pedagogicamente rielaborata, la cronaca dell’apparizione ai discepoli. Colpisce qui che essi, che hanno appena confessato la loro fede nel Risorto (24,34), ora si spaventino, credendo «di vedere un fantasma» (24, 37). Ma la ragione è chiara. Devono dare modo al narratore di rispondere ai problemi posti alla fede dalle obiezioni sull’identità del Risorto e sulla possibilità che si sia trattato di un simulacro (tale è infatti il «fantasma» per il mondo antico: un’immagine che si stacca dall’oggetto e colpisce l’occhio, consentendogli di vederlo, e che può, per un certo tempo permanere nell’aria anche dopo la scomparsa del corpo da cui proviene). Ecco il richiamo alle ferite; che garantiscono la continuità tra il Gesù terreno, morto sulla croce, e quello non più terreno, destinato alla gloria del Padre. Ed ecco il «toccate e guardate, un fantasma non ha ossa e carne come vedete che io ho», seguito dal pasto «di pesce fritto» (24,36-43). Il che non significa che Gesù risorto è tornato in vita con lo stesso corpo di prima, «carne, ossa» e ferite sanguinanti, bisognoso di cibo come tutti i mortali, ma che altri non è che il Gesù crocefisso. Anzi è quello stesso Gesù storico, presente tra noi in una forma nuova, reale di una realtà escatologica e indicibile; tanto che, nel racconto appena terminato di Emmaus, non evidenzia i segni della passione e non è riconoscibile a semplici occhi umani, ma richiede lo sguardo della fede, illuminato dal ricordo del gesto di condivisione e di benedizione. Del resto Luca passa subito da questa parentesi apologetica alle parole di missione. Esse fanno dei suoi discepoli i testimoni che Cristo doveva patire, morire, risorgere, affinché nel suo nome fossero predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, a cominciare da Gerusalemme (24,44-48). La chiusura, poi, è diversa dagli altri vangeli. Niente dono dello Spirito, ma annuncio che verrà e invito ad attenderlo in città; seguito dalla salita benedicente al cielo; dal ritorno gioioso a Gerusalemme, e dalla continua preghiera di lode al tempio (24,49-53). Il tempo concentrato Giovanni, più sobrio di Luca, non è teologicamente meno ricco e pedagogicamente meno ben orientato. Già abbiamo parlato (il foglio n. 299) della visita di Maria di Magdala e dei due discepoli alla tomba vuota, e dell’apparizione del Risorto alla prima, nel giardino che circonda il sepolcro. Possiamo passare alle due apparizioni che mettono fine a questo vangelo, non senza aver ricordato che Giovanni non ha annuncio angelico di resurrezione. Al posto suo c’è la testimonianza della Maddalena, che ha visto Gesù, il Maestro, prima della sua salita al Padre, quindi, per Giovanni, in uno stato intermedio tra il giacere morto nella tomba e il rivelarsi risorto nella pienezza dei suoi poteri (Wilkens, Il Vangelo secondo Giovanni, Brescia 2002, p. 388). Così possiamo interpretare il: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (20,17). Solo dopo questa salita, ma nello stesso giorno, avviene l’apparizione ufficiale ai discepoli, chiusi nella sala di riunione, «per paura dei Giudei». Avviene, iniziando con le parole del racconto lucano: «Pace a voi!» (20,19) e in fondo con lo stesso tipo di argomentazione teologica, l’ostensione del corpo piagato e l’annuncio della missione, ma con risultati quasi inconciliabili (20,20-21). Ciò che è diverso in Giovanni rispetto a Luca è la capacità di sintesi e di essenzialità. Dove l’uno diluisce, l’altro concentra, e l’esito non è solo una diversa lunghezza del racconto, è anche una diversa intensità del messaggio, una diversa configurazione della teologia e della pastorale. Qualcosa di ciò si può cogliere nella presentazione da parte del Risorto dei segni della passione, insistita e non priva di qualche caduta di gusto in Luca, contenuta e davvero efficace in Giovanni: «Così detto, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (20,20). L’identità è stabilita con solidità dall’accostamento dei segni della crocefissione al «gioioso» riconoscimento che essi appartengono al Signore. È naturale che subito seguano la missione e il dono dello Spirito: «Come il padre ha mandato me, io mando voi. Detto questo alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo...» (20,21-22). Il mistero è enunciato con assoluta chiarezza in tutti i suoi snodi problematici e sublimi, senza cadute nell’apologia. Ora davvero «Tutto è compiuto», come dice il Gesù giovanneo sulla croce (19,30), e il tempo della salvezza, che tendeva a dilatarsi in Luca, in Giovanni si concentra. Tutto è compiuto dal punto di vista della rivelazione, ma ancora qualcosa deve accadere sul piano della piena risposta di fede. La vicenda di Tommaso, elaborata dall’evangelista come exemplum fidei, teso a stampare nella mente del lettore il cuore dell’intero evento, e il modo della sua accoglienza nulla aggiunge a quanto già detto, ma ne esplicita le conseguenze teologiche e pastorali. Tommaso, infatti, che non crede alla parola dei condiscepoli e vuole constatare di persona, al rinnovarsi dell’apparizione, nonostante l’invito di Gesù a toccare con mano, non allunga un dito per certificare la fisicità del Risorto, ma confessa: «Mio Signore e mio Dio» (20,24-28). Così l’apostolo, escluso dall’apparizione comunitaria e dal dono dello Spirito, passa dalla condizione di incredulo a quella di credente e con lui il lettore, che, contemplando il Crocefisso nel Risorto, può completare il cammino, iniziato dal vangelo con l’evocazione del Verbo creatore, proseguito con la narrazione dell’avventura umana di Gesù e terminato con la sua morte. Il che consente tra l’altro all’evangelista di chiudere in bellezza, con l’avviso che d’ora in poi, chi crederà, dovrà farlo, non a partire dall’esperienza diretta dell’incontro col Gesù terreno o glorificato, ma affidandosi alla parola dei suoi testimoni, cioè dei vangeli: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (20,29). Il toccare non è neppure più ipotizzato, e neanche il conoscere col conforto della possibilità di verifica che altri l’ha fatto. Che altri l’abbia fatto non ci è vietato crederlo; a patto si sappia che ogni tentativo di andare oltre l’accettazione della testimonianza di fede è segno di incredulità. Aldo Bodrato |