STRADE DELLA POLITICA |
La violenza dei principi? |
Si può far notare quanto sia spiacevolmente frequente assistere, specie in tempi prossimi al dilagare di un conflitto, all’uso denigratorio del termine «pacifismo», inteso alla stregua di ebete opzione ideale o generica fibrillazione emotiva aliena a quel complesso lavoro di concetto indispensabile nell’ambito del politico. Ma lo si dovrebbe far notare solo a patto di riconoscere che troppo spesso anche il versante pacifista, che talvolta genericamente idealista corre il rischio di esserlo davvero, riserva al termine «realismo» analoghe semplificazioni strumentali. Il realista non è certo, come una vulgata retorica sovente lo presenta, un adoratore del profitto sordo ad ogni valutazione etica, né un lacché del potere costituito, convinto che al più forte spetti sempre il diritto di disporre senza remore del più debole. E se tale può, in effetti, diventare nella sua versione ignobilmente rozza e maggiormente becera, di sicuro non corrisponde a questa la pura essenza del realismo. Il realista va innanzitutto inteso quale sentinella volta a mettere in guardia contro i pericoli dell’idealismo e dell’utopia; una profonda convinzione sembra attraversarlo: credere che affermazioni quali «dal bene non può derivare che bene» o «dal male può unicamente scaturire altro male» alimentino una pericolosa inclinazione all’autocompiacimento e la spirale perversa del manicheismo politico. Il realista prova infatti una non lieve inquietudine nei confronti di chi si propone di raggiungere il bene e predilige di gran lunga il tentativo di circoscrivere il male. Realistico è il dubbio nei riguardi di tutto quel che si mette in moto nel nome di un principio; un dubbio che teme le seduzioni dell’assolutezza e dell’a priori, che avverte i possibili abusi delle buone intenzioni e l’enfasi di taluni proclami dai pulpiti della moralità. Realismo significa, anche, subodorare la violenza che può annidarsi nell’astrattezza, e non fingere di ignorare la complessità riscontrabile nei rapporti tra la dimensione morale della legge e l’immoralità della forza che un tempo, magari lontanissimo, ha contribuito a fondarla. Se è vero che appartiene al realismo la convinzione che la politica e la morale non corrispondono ad ambiti necessariamente coincidenti, questa non equivale ad un’assiomatica rivendicazione di cinismo, ma al lascito di una visione tragica della realtà. L’idealista parte, in genere, dall’amore che potrebbe esserci, il realista dal sangue che c’è, e prova ad agire di conseguenza. Tale azione si interroga concretamente sulle relazioni tra un fine e le strategie che possono condurre al suo raggiungimento, ed indubbiamente valuta con un certo disincanto politico i mezzi a propria disposizione, ma non la si può confondere con l’idea, sostanzialmente criminale, che per conseguire il fine prescelto è lecito l’impiego di qualsiasi mezzo. E soprattutto non si deve ritenere scontata l’equazione realismo uguale guerra, o rifiuto della pace, basti, a questo proposito, un cenno al lavoro di Gene Sharp, incentrato sulla valutazione – realistica – dell’efficacia delle tecniche di lotta nonviolenta. Il realismo ingenera il sospetto che nell’accettare o rifiutare qualche cosa a priori si celi una tentazione quasi demoniaca, si trattasse pure del rifiuto di un atto di violenza. Del resto, quello stesso Capitini largamente incline a superare i limiti del realismo politico, di fronte al dilemma angoscioso se uccidere o meno in difesa di un bambino conclude che è «stimabile chi, in omaggio alla nonviolenza e per tutto ciò che essa significa e produce, non compie la violenza di uccidere l’aggressore», ma ugualmente stimabile «chi compia questa violenza, con il puro scopo di difesa del bambino. Sarebbe un’impostazione errata del problema dire che non c’è che un modo d’agire; e ogni altro è delittuoso e traditore». Discutere della validità di tutti questi presupposti «realistici» è ovviamente lecito, quando non doveroso, ancor meglio affidarsi alla loro valutazione caso per caso, meno lecito arrischiarsi a liquidarli, fingendo che ad essi non corrisponda altro che ottuso culto della forza, perenne volontà di conculcare gli ultimi, o carenza di creatività spirituale. Non confondere Machiavelli con i suoi interessati semplificatori potrebbe rivelarsi, per una profonda cultura della pace, un esercizio alla lunga assai più remunerativo della sola partecipazione ad un corteo di protesta. Massimiliano Fortuna |