Editoriale |
L’arsenale di armi di distruzione di massa, che doveva giustificare la «guerra preventiva» degli Usa all’Iraq, non è stato trovato. La sostituzione di un’esecrabile dittatura con una libera democrazia di stampo occidentale si sta rivelando impossibile. La fine della violenza terroristica è più lontana che mai. I costi economici e umani dei bombardamenti e dell’invasione militare sono, come sempre, più alti dei loro ipotetici benefici. Ora tutti, destri e mancini, lo possono toccare con mano. L’unica teoria che può dare ragione della proclamazione unilaterale della guerra è la teoria della «guerra per la guerra», cioè della guerra senza ragione e senza scopi: la teoria della «guerra insensata». Ringraziamo Bush e Blair di avercelo ricordato. Riconoscere che le bombe che fanno stragi di civili e/o di militari, siano esse portate a mano o lanciate coi più sofisticati armamenti, mai sono mezzi intelligenti di risoluzione dei conflitti e sempre vanno condannate come segni di disumana follia, non basta più. Come non bastano più le denunce, i distinguo, le prese di posizione a favore o contro questo e quello, le iniziative occasionali e unilaterali di pace. Sull’imposizione di una tregua almeno tra Israeliani e Palestinesi, che consenta una concreta apertura di confronto e di dialogo, non si gioca solo la credibilità della politica di pace armata del governo statunitense, ma anche la strategia di pace equidistante dell’Europa, di pace forzosa e forzata di Arafat e di Sharon, di pace nella giustizia dei movimenti arcobaleno. Se non sono bastati decenni di risoluzioni Onu, se non ha dato i frutti sperati l’accordo bilaterale e consensuale di Oslo, se è fallita la trattativa imposta ai contendenti da Clinton, se dimostra di essere ridicolmente inefficace l’ipotesi di processo di pace condotto sotto la minaccia delle ritorsioni di una potenza neo-imperiale, che ha appena dimostrato al mondo la sua determinazione a imporre con le armi il proprio volere, allora non resta che l’intervento corale di Onu, Usa, Europa, Russia e paesi arabi sulle autorità politiche di Israele e Palestina per ottenere la sospensione delle ostilità con l’interposizione di una forza multilaterale di pace, la convocazione di una conferenza internazionale, che si impegni a procedere, a tappe graduate nel tempo, alla definizione dei confini e alla risoluzione dei molti problemi che dividono le parti. È innegabile, infatti, che il conflitto israelo-palestinese, pur non essendo l’unico nel mondo, è oggi quello che lo mette più gravemente a rischio di terrorismo e, a lungo termine, di guerra estesa e aperta, oltre a essere quello che più apertamente sfida l’Occidente a rendere ragione dei suoi sbandierati principi di libertà, di equità e di rispetto dei diritti umani. Anche per questo non ci sembra insensato sottolineare che il futuro del movimento pacifista si gioca forse proprio nella sua capacità di porre al centro della propria attenzione questo conflitto, per dare alla sua soluzione tutto il proprio contributo, offrendosi come luogo di confronto tra le varie posizioni, di dialogo e di mediazione, oltre che di sensibilizzazione e di mobilitazione dell’opinione pubblica. Si dice che oggi esistono solo due grandi potenze a livello mondiale: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica. Non è necessario che esse operino in scontro frontale, annullandosi. Possono trovare strade per collaborare nella soluzione di problemi su cui la sensibilità, pur diversa, non è opposta. Sarebbe una bella impresa per il movimento pacifista, se, vincendo le resistenze integraliste proprie e altrui, riuscisse a dimostrare che senza l’appoggio dell’opinione pubblica mondiale non solo non si vince politicamente una guerra, ma neppure si imposta una credibile ricerca di pace. [ ] |