RISORTO O VIVO NEL RICORDO? / 7
Il giusto scetticismo dello storico

Mentre vedevano la luce i primi articoli di questa ricerca sul significato del linguaggio evangelico di resurrezione, è uscito il bel libro di G. Barbaglio, Gesù un ebreo di Galilea (Dehoniane 2002), che dedica ampie pagine a questo tema e che ha rilanciato un dibattito mai sopito tra gli esegeti. Ora che, terminato il lavoro esegetico, ci accingiamo a trarne le conclusioni storiche e teologiche, è bene richiamare i termini della questione a partire dall’intervista a Barbaglio e dalla replica di G. Ghiberti («Repubblica», 2 e 4 gennaio 2003).

Sostiene Barbaglio che «la tomba vuota è un fatto secondario», una metafora, formatasi dopo la nascita della fede nella resurrezione, per dire che «Dio ha sottratto Gesù al regno dei morti». Replica Ghiberti che essa va considerata l’esperienza storica che ha dato inizio all’interrogativo sul destino ultraterreno di Gesù, poi indirizzato alla compiuta fede nel Risorto dalle apparizioni. Lascia intendere il primo che la fede nella resurrezione del Nazareno non comporta la rivitalizzazione fisica del suo corpo terreno. Obietta il secondo che, «pur tra molte difficoltà di linguaggio», i testi indicano che «il Crocefisso, morto e seppellito, è tornato in vita nella piena capacità di ristabilire un normale rapporto umano coi suoi». Conclude l’uno che come storico non può che fermarsi alla presa d’atto che Gesù è morto in croce, mentre come cristiano deve e vuole credere alla sua resurrezione. Conclude l’altro che tale separazione tra verità storica e verità di fede è alla lunga insostenibile.

Su un solo punto sono forse più vicini di quanto ritengono. Barbaglio dice che gli apostoli, persa ogni speranza dopo la morte del loro maestro, «sperimentano la presenza vivificante di Gesù come una teofania»; Ghiberti dichiara che «le apparizioni non sono un’esperienza puramente interiore, ma un incontro offerto e non atteso», vale a dire «una rivelazione».

È quanto gli articoli citati mettono sul piatto del dibattito ed è quanto anche noi dovremo affrontare, fatta l’indispensabile premessa che il linguaggio neotestamentario, soprattutto nei racconti di resurrezione, è simbolico e che «non è storico anzitutto l’evento della resurrezione stessa, del quale si può parlare solo metaforicamente, ma il rendersi presente di questo evento presso e grazie ai discepoli» (F. Brambilla, Il Crocefisso risorto, Queriniana, 1998, p. 221).

Matteo diffamò i capi dei giudei?

Già lo sappiamo: il cavallo di battaglia per riaffermare la possibilità di dare consistenza storica, se non alla resurrezione, almeno a qualche suo indice esterno ed indiretto, sono i racconti relativi alla tomba vuota. È questa, infatti, l’esperienza su cui i vangeli sembrano più concordi e apparentemente anche quella meno caratterizzata dalla precomprensione di fede: l’esperienza potenzialmente più soggetta a verifica da parte di osservatori neutrali, se non addirittura avversi.

L’esame dei testi ci ha però detto che le cose non stanno così. Assai vario è il modo in cui i vangeli affrontano questo soggetto. Ognuno d’essi lo propone nella propria ottica teologica e lascia pochissimo campo all’analisi storica e al confronto con altre possibili letture. Ma sono soprattutto il silenzio sulla tomba degli altri scritti neotestamentari e l’inadeguatezza storica del tentativo di Matteo e dell’apocrifo Vangelo di Pietro di affiancare alla testimonianza delle donne quella delle guardie, poste a custodia del sepolcro dai capi dei giudei o da Pilato, a fare problema.

Nel primo caso non è tanto imbarazzante che Paolo, il più antico testimone delle origini della fede cristiana, taccia in proposito, vista la sua reticenza su altri aspetti ben più rilevanti della vicenda terrena di Gesù, quanto che neppure Luca ne parli negli Atti, dove la tomba vuota non è mai ricordata nei discorsi rivolti da Pietro ai giudei di Gerusalemme. Nel secondo colpisce il fatto che, mentre una lettura teologica è in grado di valorizzare la contrapposizione che Matteo e lo Pseudo Pietro fanno tra la prontezza alla fede dei seguaci di Gesù e l’indurimento nell’incredulità dei suoi avversari giudei, una lettura storica non può che concludere alla palese falsità della loro testimonianza, che in tale ottica risulta addirittura diffamatoria. Non solo infatti sono discordi sull’identità delle guardie e sullo sviluppo dei fatti, ma pretendono che i capi dei giudei, più e meglio dei seguaci di Gesù, abbiano ascoltato e capito gli oscuri cenni da lui dati in privato sulla futura resurrezione. Se il racconto di Matteo può offrire qualcosa allo storico, gli offre la prova che la semplice presenza della tomba vuota, senza annuncio angelico e senza apparizione del Risorto, non ha alcun valore confermativo dell’evento cristologico e può essere storicamente spiegata come risultato del furto del cadavere da parte di amici o di nemici del Crocefisso.

Né le notizie lucane e giovannee sulle bende e sul sudario, gettate a terra e ben ripiegato, le si rigiri come si vuole, aggiungono qualcosa di significativo. Contraddicono, forse, l’ipotesi del furto. Ma in cosa confermano quella della resurrezione? La loro valenza storica è tanto impalpabile e vaga da essere inutilizzabile. Col che nessuno può affermare con certezza che i racconti evangelici relativi alla tomba vuota non hanno alla loro base alcun fatto storico, oltre che un’originale percorso spirituale. Ma tutti devono ammettere che, mentre la loro storicità resta non più che possibile, la loro pregnanza simbolica è indice di un’esperienza di fede tanto forte da diventare evento.

In sostanza la “tomba vuota” ci è presentata dai vangeli più come un luogo teologico che come un luogo fisico, più come occasione d’annuncio e come raccordo simbolico forte tra il Gesù terreno e il Risorto, che come spunto per la verificabilità storica della resurrezione. 

Lo storico non vada oltre la storia

Entriamo così nella seconda e insolubile questione posta dal linguaggio evangelico di resurrezione a chi vuole leggerlo non come linguaggio metaforico, ma come linguaggio storico. È chiaro, infatti, che coloro che ritengono che i racconti di apparizione possano avere una qualche e dimostrabile storicità, non lo fanno solo per dare attendibilità e ragionevolezza alla fede cristiana, ma anche perché pensano che solo nell’orizzonte terreno della storia il Crocefisso risorto può avere un corpo materiale, sottratto alla corruzione della morte e reso capace di conservare i segni fisici della passione, di farsi toccare con mano e di sedere coi suoi a mangiare porzioni di pesce, come dice la lettera, non lo spirito, di alcuni, non di tutti, i testimoni evangelici.

Proviamo ad affrontare questo nodo di questioni, tenendo presente i testi analizzati, e riservando alla conclusione il problema del valore storico delle apparizioni nel loro complesso.

L’identità tra il Crocefisso e il Risorto è chiaramente attestata da tutto il Nuovo Testamento. Si tratta di un’attestazione e di un’identità teologica, prima che storica e fisica, ma non può del tutto prescindere da queste ultime. Il Risorto è confessato come Risorto solo in quanto è riconosciuto come il Crocefisso. Negarlo sarebbe abbandonare la fede evangelica e ritrovarsi con un Cristo che senza Gesù rischierebbe di avere, di volta in volta, i caratteri tipici dello “spirito del tempo”. Con ciò, molto è detto sul piano teologico: nulla invece su quello storico.

Certo la teologia afferma che con la resurrezione Gesù è stato sottratto all’abbandono e all’abisso della morte, richiamato in vita: non a quella di prima e neppure all’esistenza effimera e passeggera dei fantasmi, ma alla vita nuova dell’eterna comunione con Dio. Lo storico può confermare che tale è la testimonianza neotestamentaria, ma non andare oltre, se i testi non glielo consentono, se presentano l’incontro col Risorto più come rivelazione che come constatazione fattuale, se inquadrano tutto ciò all’interno di una professione di fede, se per rappresentarlo elaborano immagini che per il teologo sono piene di senso e per lo storico incompatibili col contesto spazio-temporale della comune condizione terrena di cui la storia si occupa.

Ce n’è quanto basta per riconoscere che lo storico deve dichiararsi escluso dalla questione. La storicità non sta nell’orizzonte di quelle pagine e a lui spetta rispondere, a chi gli chiedesse di giudicarle, che l’evento da esse narrato non rientra nelle sue competenze (cfr J. P. Meier, Un ebreo marginale, vol. I, Brescia 2001, p. 22 e pp. 186-87).

Il teologo non vada oltre la teologia

D’altra parte anche il teologo non può che prendere atto che la lettura storica dei racconti di resurrezione è fuorviante e costringe il credente a fare proprie ipotesi documentarie contraddittorie e francamente insostenibili per la fede stessa, o almeno tali da distrarla del tutto dal suo nucleo essenziale. Gesù è apparso ai suoi in Galilea o a Gerusalemme? Li ha subito inviati in missione o li ha ancora catechizzati per oltre un mese? Ha donato lo Spirito ed è salito al Padre nei giorni stessi della resurrezione o molto dopo? Aveva un corpo immortale, capace di passare attraverso le porte chiuse e salire al cielo o un corpo talmente uguale ai nostri da poter essere toccato e addirittura da doversi nutrire col nostro stesso cibo?

Si abbia il coraggio di ammettere che sono domande insensate e che solo una lettura metaforica della Bibbia ci consente di entrare in dialogo col messaggio della testimonianza evangelica di resurrezione e di porre su basi accettabili anche il problema della sua storicità. Ci permette di capire che il nucleo storico di tali racconti, che ciò che li origina, non va solo cercato nell’esperienza che storicamente li precede e li prepara, nella riflessione sulla vita e sulla morte di Gesù e neppure nella convinzione personale e comunitaria che la sua avventura non poteva finire con la morte, ma in un nuovo evento rivelatore che viene da Dio e dal Risorto.

È quanto ci dicono i racconti della tomba vuota e quelli delle apparizioni. Nessuno più dei discepoli del Crocefisso attendeva nulla, ma improvvisamente accade qualcosa che sconvolge tale abbandono al lutto e allo sconforto, qualcosa che viene loro incontro nella situazione storica in cui si trovano, qualcosa che equivale ad una nuova rivelazione e che può essere detto solo con la lingua metaforica delle teofanie: un angelo annunciatore, il Risorto che si fa riconoscere con un gesto di condivisione, lo stesso che si mostra vivente con le piaghe del crocefisso o che esorta alla missione promettendo di essere coi suoi per sempre, che dona lo Spirito e rifonda la fede.

Per qualcuno è troppo, per qualche altro è troppo poco (Barbaglio, op. cit., pp. 561-65). Per noi è quanto basta per dire che è saggio lo storico che si ferma per l’uomo storico Gesù là dove si ferma per tutti gli altri uomini, alla constatazione della sua e della loro morte e ai bordi della sua e della loro tomba. Oltre, se un oltre c’è che appartiene a Gesù e ai suoi discepoli nella dimensione della fede e della speranza, non sarà come storico che potrà accedervi, ma come credente e come teologo. Il che non è incoerenza intellettuale, ma corretta armonizzazione dei saperi e degli affetti.

Aldo Bodrato

(continua)


 
 
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