LETTERE
La chiesa del post-Concilio


Negli anni postconciliari la Chiesa Cattolica sembra essere venuta meno a quella sorta di lungimiranza profetica di cui aveva sempre goduto. Ecco alcuni esempi.

Sul piano sociale-politico, dopo la definitiva dissoluzione della Dc aveva auspicato la diaspora dei cattolici in tutte le formazioni politiche, affinché la loro presenza fungesse da lievito tra i laici non credenti; ma non è andata cosi: il lievito è stato assorbito dalla massa laica e non ha fermentato alcunché. Resasi conto dell’abbaglio “strategico”, la Chiesa ha cercato di rimediare diffondendo nel dicembre 2002 la Nota Dottrinale circa il dovere dei cattolici di non votare partiti lontani dalla Dottrina sociale. Mi chiedo allora che senso avesse rallegrarsi della dispersione politica dei cattolici e poi, tardivamente, cercare di farli rientrare dalla porta aperta dalla stessa Chiesa. Anche sul versante del dialogo interreligioso non è andata molto meglio. Dopo aver promosso incontri ecumenici ed interreligiosi a tutti i livelli, si è resa conto che il ponte gettato alle altre religioni, si è trasformato in un boomerang: la “transumanza” è sì iniziata, ma in senso contrario. La Chiesa ha cercato allora di riaccalappiare i fedeli «sbandati» diffondendo la Nota dottrinale sulla New Age, in cui viene sconsigliato di avvicinarsi con troppa impudenza alle religioni della nuova era.

Nell’edizione del catechismo della Chiesa cattolica del 1992 la pena capitale, in via di principio non era esclusa, successivamente ad una sorta di “insurrezione” popolare nell’edizione aggiornata del 1995 è stata definitivamente esclusa. Infine, è di questi giorni l’uscita dell’Ecclesia de Eucharestia in cui si mette in guardia da certa disinvoltura con cui è somministrato il sacramento eucaristico. Prima si è incentivata la formazione di nuovi ministri laici per l’Eucarestia e contemporaneamente, sviluppata una nuova pastorale lassista per i divorziati, in cui è stato facilitato l’accostamento ad essa, ed ora, a fronte di evidenti abusi sacramentali, la Chiesa cercherà con questa Enciclica di arginare il fenomeno.

Da notare che questo nuovo documento magisteriale è indirizzato in modo particolare a Vescovi e sacerdoti, chiaro segno che «qualcosa» è sfuggito. Dopo queste inesattezze di valutazione storica e pastorale mi sovvengono le parole di Paolo VI che nel giugno del ’72 profferì: «Riferendoci alla situazione della Chiesa di oggi, abbiamo la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio (...). Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza (...). Crediamo che qualcosa di preter-naturale sia venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico».

Non vorrei pensare che le innovazioni liturgiche e le aperture della Chiesa al mondo contemporaneo non abbiano fatto altro che confondere i Cattolici intiepidendo la fede e svuotando le Chiese. La sensazione è che l’autorevolezza e la credibilità della Chiesa nel mondo sia aumentata sul piano sociale (vedi plauso trasversale sul tema della pace), ma diminuita brutalmente sul piano della trasmissione della fede e della Verità cristiana.

Gianni Toffali

 

Quanto il nostro lettore afferma a proposito delle aperture, presto rimangiate, della chiesa post-conciliare, mi
pare un po’ affrettato ma sostanzialmente vero.

Col Vaticano II sono state avanzate delle ipotesi di rinnovamento che non hanno dato i frutti sperati sul piano sociale e politico, su quello del dialogo ecumenico e religioso e delle riforme giuridiche e pastorali. Il lettore ne presenta alcune, che non sono neppure le principali, vista la fine delle promesse sulla valorizzazione del «popolo di Dio», sulla riforma liturgica, sul riconoscimento del primato della Scrittura, sulla libertà religiosa e sul congedo dalla «cristianità». Ma tant’è. Avendo Roma fatto notevoli passi indietro anche su questi punti, la sostanza del suo discorso resta. La chiesa sta più o meno come prima del Concilio, anzi peggio, perché, disorientata da tutto questo viavai contraddittorio, ha finito col perdere di vista temi essenziali della fede.

Potrei replicare che gli esiti del post-conclio non sono poi così disastrosi, ma mi sembra giusto accettare la provocazione e rilanciarla sugli altri lettori, limitandomi ad alcune osservazioni.

Il lettore ci dice che col Concilio la chiesa ha abbandonato la sua tradizionale lungimiranza profetica. A quale lungimiranza si richiama? All’immobilismo di chi resta fermo sulle posizioni di ieri, aspettando che la buriana passi e dopo le rivoluzioni tornino le restaurazioni? È profetismo questo? Possiamo spacciare per lungimiranza profetica la sordità della chiesa del Vaticano I e del secolo che lo ha seguito, alle trasformazioni sociali e culturali del mondo? La condanna papale di ogni movimento di riforma esegetica, teologica e pastorale? Possiamo chiamare vita la morte del conformismo politico, dell’immobilismo dottrinale, della chiusura morale e intellettuale alle «ansie e ai problemi» degli uomini del proprio tempo?

Il lettore lascia intendere che sono le innovazioni post-conciliari, pur timidissime, e non le pretestuose marce indietro dei vertici romani rispetto alle stesse, a creare disagio nella chiesa. La realtà mi sembra ben diversa e accenno solo a due esempi.

A Torino, negli anni ’60/70 con la nomina a vescovo di Michele Pellegrino era iniziato un notevole sforzo di svecchiamento della vita ecclesiale, per renderla più dialogica e partecipata, più aperta ai problemi della città e alle istanze culturali e sociali emergenti. Tutto è morto, non perché è fallito il tentativo per intrinseca fragilità, ma perché il vescovo è stato indotto da Roma alle dimissioni e i suoi successori sono stati scelti senza tenere conto delle istanze della diocesi. Mandati a spegnere ogni fermento, Ballestrero e Saldarini hanno operato di conseguenza, anche se il primo con un certo rispetto e solo il secondo col paraocchi del prefetto. Oggi la chiesa torinese vivacchia sotto la guida di un cardinale che «sa predicare ai bambini» e, come «un buon parroco di mezzo secolo fa», progetta rilanci missionari basati sulla pastorale di settore e d’età e sulla predicazione per grandi temi, mentre dedica la sua passione alla costruzione, questa sì moderna, della cattedrale e della relativa canonica. Di chi è la responsabilità di tanto disastro?

Ma se Torino non ride, Roma piange, soprattutto sul piano dell’annuncio di fede. L’ultimo documento papale sull’eucarestia, citato dal lettore, è in questo senso il segno di una vera e propria dis-evangelizzazione. Innanzitutto perché non compie alcuno sforzo di mettersi in condizione di interagire con gli eventuali ascoltatori, e poi perché privilegia la fedeltà alla teologia magisteriale rispetto a quella biblica ed evangelica. È, infatti, la pura e semplice riproposizione di linee dottrinali e pastorali preconciliari se non addirittura tridentine, quando la teologia ragionava a partire dalla visione aristotelica della realtà e gerarchico-monarchica della società. Non apre neppure il confronto con la ricerca teologica degli ultimi cinquant’anni e vanifica quanto nello stesso arco di tempo è stato fatto sul piano pastorale. È un testo che in nulla contribuisce alla crescita della vita della chiesa e neppure alla presentazione rinnovata della sua fede eucaristica. Non fa del bene e non farà del male solo se passata sotto silenzio e subito dimenticata.

Il nostro lettore ha ragione: la chiesa non gode buona salute, ma certo non per colpa del Vaticano II, bensì per la pessima utilizzazione che la gerarchia romana ne ha fatto. «Se sbaglio, mi corriggerete».

Aldo Bodrato


 
 
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