ANNIVERSARI / 2 |
8 settembre: nascita della patria |
«Il Governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Così il Maresciallo Badoglio per radio alle 19 e 45 dell’8 settembre 1943. Ma da quale parte potevano provenire gli eventuali attacchi? Dalla Svizzera? Da San Marino? Le righe che seguono non pretendono di costituire una ricostruzione storica. Sono un invito a riflettere in modo positivo su quell’evento di sessant’anni fa, evento tragico che tuttavia avrebbe segnato l’inizio di una nuova era, ancora lontana dall’essere compiuta al giorno d’oggi. L’esercito italiano contro le patrie Facciamo un lungo passo all’indietro esaminando, con l’aiuto di don Milani (Lettera ai cappellani militari), le “gloriose” imprese dell’esercito italiano. 1866: guerra d’aggressione all’Austria. 1870: guerra contro i romani dello Stato Pontificio che, se non amavano molto la loro secolare Patria, non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo. 1896: guerra d’aggressione all’Abissinia. 1898: “guerra” contro una folla di mendicanti a Milano. 1911: guerra di Libia seguita da massacri della popolazione civile (vedi il foglio 276). 1915: guerra d’aggressione all’Austria. 1935: guerra d’aggressione all’Abissinia, compreso l’uso di gas, come documenta Don Milani nella Lettera ai giudici. Uno degli eroi di questa vile impresa fu Badoglio, il futuro eroe dell’8 settembre. 1936: guerra d’aggressione alla Spagna. 1939: guerra d’aggressione all’Albania. 1940-41: guerre d’aggressione a Francia, Gran Bretagna, Grecia, Jugoslavia, Urss, Usa... Non c’è stata una guerra che possa rientrare nella pur discutibile categoria di guerra giusta, di difesa. Non solo. Il Regio Esercito, dopo aver aggredito le patrie altrui, è stato anche protagonista della distruzione della propria patria. Dopo 80 anni di guerre, la patria italiana era stata distrutta dall’azione determinante di chi aveva sempre avuto la parola «patria» in bocca. Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa dopo Solferino, così definiva gli eserciti: «grandi distruttori che popolano il sepolcro di centomila morti in un sol giorno, marciando con coraggio meraviglioso, per non dire satanico, su mucchi di cadaveri, senza arrestarsi né esitare» (Firpo, Dunant e le origini della Croce Rossa, Utet 1979, p. 100). Dunant rischia tuttavia di confondere i crimini del militarismo con i singoli militari, povera gente imbottita di demenziali parole d’ordine. E c’è da stupirsi quando ancora oggi il nostro amato inno nazionale definisce la Vittoria come «schiava di Roma», così creata da Dio? Prima di mettere la parola Dio nella Costituzione Europea, bisognerebbe togliere questa oscena bestemmia dall’inno nazionale. «Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò»: non si sa se ridere o piangere. La difesa della Patria dura poche ore Dunque l’esercito italiano doveva reagire ad eventuali attacchi. Ma una postilla esplicativa aggiungeva: «Non aggredire i tedeschi». In questa drammatica situazione l’Italia conserva sul territorio metropolitano una ventina di divisioni. Nel frattempo il comando tedesco ha concentrato in Italia 17 divisioni, meglio armate di quelle italiane (Porcari, Le forze armate in Italia nel 1943, in 8 settembre 1943, storia e memoria, Franco Angeli 1989, p. 55). Una relazione dello Stato Maggiore (Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma 1975, p. 681) denuncia chiaramente la «mancanza, da parte italiana, di ordini tempestivi e chiari, senza esitazioni, senza timori, per coordinare subito una resistenza generale ai tedeschi [...]. Anche se una resistenza delle sole forze italiane, prolungata nel tempo, avesse avuto l’aspetto di una lotta fine soltanto a se stessa, sarebbe stata egualmente efficace e avrebbe comunque salvaguardato il patrimonio morale del popolo italiano». Il risultato lo conosciamo: si ha un completo collasso dell’esercito italiano con lo sbandamento della maggior parte dei reparti. L’esempio viene dall’alto: «Partirono i ministri militari, i capi delle forze armate e i più alti esponenti della burocrazia militare, ma nessuno pensò di avvertire i membri civili del governo. Nel clima di un vergognoso “si salvi chi può”, una fiumana di generali si rovesciò sulla strada di Pescara e la sera del 9 settembre affollò le banchine del piccolo porto adriatico, tanto che l’imbarco del re sulla corvetta Baionetta dovette essere protetto dai carabinieri» (Pieri-Rochat, Pietro Badoglio, Torino 1974, p. 823). In questo sbandamento generale una delle poche eccezioni è stata l’eroica resistenza dei militari italiani a Cefalonia. E in Italia? «Intorno a Roma si fronteggiavano forze tedesche e italiane in una situazione che nella migliore delle ipotesi era una situazione di equilibrio [...]. In realtà più che di “mancata difesa di Roma” si trattò di “difesa impedita”. La mattina del 9 settembre arrivò un ordine da parte del Comando Supremo di “allontanare” dalle posizioni preesistenti a difesa di Roma le divisioni Ariete e Piave. La mattina del 9 settembre iniziarono le trattative di resa con i tedeschi» (Gallerano, La mancata difesa di Roma in 8 settembre cit., pp. 22-24). Lo stato di incertezza è registrato anche dai giornali dell’epoca. «Stampa Sera» del 10-11 settembre 1943 porta le seguenti confuse notizie: «La rottura delle trattative con il Comando delle truppe tedesche dislocate verso Roma»; «Centomila soldati anglo-americani sarebbero sbarcati in Campania» (corrispondenza da Lisbona); «Bombe su Roma lanciate ieri sera da aerei sconosciuti»; «Un pilota canadese dichiara che il golfo di Napoli rigurgita di navi in seguito all’invasione anglo-americana». Le ricostruzioni seguenti mostrano che ci fu qualche tentativo per spingere i militari a difendere finalmente la patria. Secondo la Storia di Torino (vol. VIII, Einaudi 2001, p. 816), vi fu un comizio a Torino il 10 settembre con la partecipazione di 11 mila persone, in cui «si tentò di fraternizzare direttamente con i soldati. In piazza Sabotino fu distribuito un volantino con l’appello ai cittadini ad “aiutare l’esercito col braccio, sorreggerlo con l’affetto, segnargli le mete comuni della libertà”. Una delegazione si recò dal comandante della Difesa territoriale, il gen. Adami Rossi, senza essere nemmeno ricevuta. Il giorno dopo un’altra delegazione si trovò davanti il generale che ostentava sull’uniforme un’alta onorificenza tedesca». Su «La Stampa» dell’11 gennaio 1948 così si descrive il comizio del 10 settembre: «Il 10, nelle prime ore del pomeriggio, fu segnalata una colonna motocorazzata tedesca sull’autostrada in movimento verso Torino. La notizia si divulgò immediatamente e da quel momento la città visse le ore sue più drammatiche. Avrebbero i tedeschi messo a ferro e fuoco Torino? Quale resistenza era stata organizzata? Queste erano le domande ansiose alle quali nessuno sapeva dare risposta. Un folto gruppo di operai accorse agli Alti Comandi: le porte erano sbarrate e allora essi cominciarono a gridare a gran voce: “Vogliamo le armi, siamo pronti a difendere la città!” La folla si ingrossava sempre più e il gen. Adami Rossi osservava questa commovente manifestazione di patriottismo da una finestra». Il 13 settembre 1943 «La Stampa», ormai tedeschizzata, così si esprimeva: «Il comandante tedesco ha dichiarato che l’occupazione della città non deve assolutamente essere intesa come atto di ostilità, ma come una logica conseguenza degli avvenimenti che si sono prodotti negli scorsi giorni». Fieri di non essere «ottimi soldati» Dunque, dopo decine di guerre d’aggressione, quando finalmente arriva il momento di difendere la patria aggredita, l’esercito nazionale non la difende, salvo lodevoli eccezioni dovute al coraggio e al senso di responsabilità di ufficiali e soldati lontani dalla mentalità militarista. Gli eroi di Cefalonia, i pochi che difendono Roma. Ma anche i militari che si uniscono all’estero ai partigiani locali e i moltissimi che, deportati in Germania, si rifiutano di aderire alla Rsi. Poi ci sono i disertori della Rsi che si uniscono ai partigiani. E poi ci sono i disertori “semplici”, coloro che semplicemente si nascondono. Meglio paurosi che assassini. A proposito dei partigiani, continuano ad esserci coloro che credono di scoprire l’acqua calda e cioè che tra i partigiani c’erano anche volgari delinquenti e fanatici giustizieri. Ma questa è una triste realtà presente in ogni situazione di caos. Ricordiamo per esempio che tra l’ottobre e il novembre del 1956 in Ungheria ci furono esecuzioni sommarie e vendette nei confronti dei comunisti. Cardine della mentalità militarista, fonte di tanti delitti e tante viltà, è il mito dell’ubbidienza cieca: incoraggiamento dell’attesa passiva di decisioni dall’alto, disabitudine alla critica, all’intraprendenza, all’assunzione di responsabilità. Il sonno della ragione, ma soprattutto il sonno del senso di responsabilità, genera mostri. Quando nel dopoguerra un esponente sovietico definì gli italiani «più bravi a correre che a combattere» ci fu una levata di scudi. Eppure era un complimento. Perché quei poveri ragazzi dovevano combattere in Russia? Il loro sacro dovere era di scappare, purtroppo non di corsa nel gelido inverno russo. E ora? Rimane, nel profondo del nostro inconscio, l’idea che il maschio deve essere un soldato valoroso e ricoprirsi di gloria. «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo», lamentava Quasimodo. Magari! Oggi il soldato non è più quel poveretto impegnato nel corpo a corpo, coperto del sangue proprio ed altrui. È un professionista esperto dei più sofisticati ritrovati dell’elettronica. Ma è ancora più pericoloso. Occorre fino in fondo ascoltare l’appello che ci viene dagli sbandati, dai disertori, dai disubbidienti dell’8 settembre. Esercito e difesa della patria sono incompatibili. E per patria si intende l’Italia, l’Europa e soprattutto il nostro pianeta, l’unico che abbiamo, la cui esistenza è messa in pericolo dalle armi di distruzione di massa in dotazione a molti eserciti, compreso quello dell’unica Superpotenza. E queste armi sono in mano a generali e presidenti coraggiosi e saggi come Badoglio e Vittorio Savoia. Dario Oitana |