ATTUALITÀ DI UNA PROPOSTA
Un Concilio Ecumenico per la pace

Dopo l’impegno forte e unitario di tutte le chiese cristiane contro la guerra degli Stati Uniti all’Iraq, circola di nuovo l’idea di un concilio ecumenico sulla pace.

La proposta fu avanzata già il 28 agosto 1934 – quasi settant’anni fa! – da Dietrich Bonhoeffer, che avvertiva chiaramente il carattere idolatrico e violento del nazismo da un anno al potere nel suo paese, la Germania: «Solo il grande concilio ecumenico della santa Chiesa di Cristo da tutto il mondo può parlare in modo che il mondo, nel pianto e stridor di denti, debba udire la parola della pace, e i popoli si rallegreranno perché questa Chiesa di Cristo toglie, nel nome di Cristo, le armi dalle mani dei suoi figli e vieta loro di fare la guerra e invoca la pace di Cristo sul mondo delirante» (cfr Paolo Ricca in Le chiese evangeliche e la pace, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1989, p. 84). «La Chiesa – commenta Ricca sottolineando le parole centrali – non può chiedere al mondo di fare la pace se lei stessa non fa il primo passo in questa direzione, disarmando i cristiani, disarmando se stessa».

Nello stesso periodo riprese l’idea un prete cattolico, anch’egli poi vittima del nazismo, Max Joseph Metzger. L’idea nasceva dunque ecumenica, mentre le chiese cristiane tedesche si laceravano pro e contro il nazismo. 

Il suggerimento restò inascoltato. Dovette sembrare esagerato e stravagante, fuori tema, mentre era profetico. Pio XI condannò i nazionalismi ma legittimò la guerra coloniale d’Etiopia e la guerra civile di Spagna. Nel 1939, contro la guerra si levò la voce di Pio XII (peraltro troppo esitante sul nazismo razzista), e alcune altre autorevoli, ma non la voce corale dei cristiani. Il nome di Dio compariva sul cinturone dei soldati della Wehrmacht, e nelle chiese si pregava lo stesso Dio, su fronti opposti, per la vittoria militare. Ero bambino e ricordo certi canti in chiesa per la vittoria, per il re e per il duce. Le giustificazioni religiose della guerra, facilmente piegate alle pretese statali e nazionalistiche, erano ancora di attualità.

La Pacem in terris

La seconda guerra mondiale rovesciò sul mondo tutto il suo cumulo di rovine di vite, di paesi, di cuori, mentre il mondo entrava sotto il segno fatale dell’era atomica. Un momento di sofferta saggezza la seguì, e fu il tempo in cui la Carta dell’Onu e la Costituzione italiana sancirono la necessità civile e morale di bandire la guerra dalla storia. Poi, la guerra fredda, il proliferare di armamenti sempre più numerosi e minacciosi, la catastrofe sfiorata più volte, per lo più senza che il mondo lo sapesse. Fu però nota a tutti la tremenda ma sventata crisi di Cuba del 1962, che diede a Papa Giovanni l’occasione per l’enciclica Pacem in terris, nella Pasqua 1963, riletta da molti quest’anno, nel 40°. Fu un grande passo avanti nella riflessione morale cristiana, condivisa con ogni persona di buona volontà. Dichiarava «fuor di ragione» pensare la guerra come strumento di giustizia. Fu una parola più chiara di quella detta sulla pace dal contemporaneo Concilio Vaticano II.

A mia memoria la proposta di un concilio per la pace fu ripresa da padre David Maria Turoldo nel 1981, all’inizio del decennio più pericoloso, gli anni del grande riarmo delle due superpotenze, ma anche della crescita di un movimento per la pace, motivato soprattutto dalla paura dei missili, peraltro ben legittima. 

L’istanza di un concilio ecumenico per la pace fu presentata nella sesta Assemblea mondiale del Consiglio Ecumenico delle Chiese (ortodosse ed evangeliche, senza la chiesa cattolica) a Vancouver, nel 1983.

La proposta fu poi rilanciata nel 1985 nel Kirchentag (l’assemblea biennale di base delle chiese evangeliche tedesche) dal suo presidente Carl Friedrich von Weizsaecker, fisico e filosofo: «Noi preghiamo le chiese del mondo di convocare un concilio della pace. [In esso] le chiese cristiane, solidalmente responsabili, devono dire una parola che l’umanità non possa ignorare» (cfr Ricca, op. cit, p. 85; von Weizsaecker, Il tempo stringe, Queriniana 1987, p. 9).

Più della paura

La proposta si realizzerà, evidentemente solo in parte, ma nel giusto spirito, nelle assemblee ecumeniche di base di Basilea 1989 e Seoul 1990, attente alla connessione tra giustizia, pace e rischio ecologico, avvertito sempre più chiaramente. Rispetto agli anni precedenti, più della paura scaldavano gli animi impegno e speranza, vissuti insieme da tutti i cristiani. Le grandi rivoluzioni nonviolente del 1989, animate anche dalle chiese cristiane, giocavano un ruolo importante nella caduta dei regimi comunisti nell’Europa orientale. Questi eventi, col successivo dissolvimento dell’Unione Sovietica, diedero al mondo la speranza di un’epoca di relazioni internazionali finalmente regolate dal diritto di pace scritto nella Carta dell’Onu. 

Ma la prima guerra del Golfo, nel 1991, significò, da parte degli Usa e dell’Occidente, la scelta di rilegittimare la guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali, invece di mettere completamente e creativamente in atto le nuove possibilità politiche e giuridiche di pace. Nel «decennio orribile» seguito abbiamo visto gli sviluppi tragici di quella logica.

Oggi, la guerra «preventiva» voluta dagli Usa contro l’Iraq è strumento assai sospetto di una pura volontà di dominio, e perciò gravemente corruttore delle relazioni internazionali. Essa è venuta dopo la scelta, nel 2001, della guerra come unica risposta al terrorismo. Corale e chiarissima è stata l’opposizione di tutte le chiese cristiane, forte esperienza ecumenica di amore impegnato per il mondo e la giustizia. Questo sollevamento morale inedito, insieme ai vasti e profondi movimenti popolari per la pace in tutto il mondo, mai visti prima, è l’elemento attuale di speranza nel momento assai grave che viviamo. 

Pace, fedeltà al Signore

In questa emergenza, la presa di posizione delle chiese sta impegnando nuovamente la riflessione di fondo sulla fede operante nella storia. Senza semplificazioni riduttive, i cristiani stanno comprendendo che la pace nel mondo e nella storia è impegno e segno primario della fedeltà vissuta all’evangelo. Noi ci allontaniamo da Dio se ci allontaniamo dai fratelli, tanto più se decidiamo i conflitti uccidendo, distruggendo, dominando. La nonviolenza positiva è realizzazione di fratellanza e di amore esteso fino agli avversari e nemici, come Cristo richiede. Enzo Bianchi ha scritto: «Proprio sulla dottrina della pace la chiesa misura la sua fedeltà al Signore e la sua capacità di testimoniare l’evangelo nella compagnia degli uomini». 

Negli ultimi decenni la dottrina cristiana della pace ha fatto progressi, ma ha avuto anche incertezze e oscillazioni di fronte ai conflitti bellici (1). Intanto, la guerra vuol farsi di nuovo suprema legge del mondo, volontà di dominio. Essa pretende anche consacrazioni divine in due forme opposte di totalitarismo religioso: una di correnti violente che abusano del nome dell’islam, l’altra in ambienti potenti d’Occidente, che abusano del nome cristiano.

Un messianismo «benefico»

Dei vari motivi di questa guerra e di questa politica, uno dei più profondi e determinanti è un fondamentalismo pseudocristiano, apocalittico e non evangelico, un messianismo «benefico», che si sente autorizzato ad imporre con ogni mezzo il Bene dove vede il Male. Il presidente Bush e molti suoi consiglieri appartengono ad un tale filone, come si può documentare.

Questo fondamentalismo cristiano preoccupa tutte le chiese. Il loro impegno comune, insieme al Papa, contro questa guerra va letto anche come difesa molto preoccupata del cristianesimo da quel fondamentalismo, assai pericoloso per il mondo e per la fede. 

In questo clima, l’idea di un concilio davvero ecumenico sulla pace torna di attualità, per l’esigenza di consolidare la scelta delle chiese cristiane approfondendo la riflessione e lo spirito evangelico e per fugare qualche equivoco ancora presente tra i cristiani. Il cardinale Achille Silvestrini (intervista a «La Repubblica», 22 aprile, commentata da Romolo Menighetti, «Rocca» 15 maggio) pensa ad una «convocazione ecumenica» col Papa per «una grande riflessione sulle responsabilità dei cristiani di fronte alla guerra». Col vasto consenso sulla guerra all’Iraq, la maturazione del comandamento «non uccidere» può raggiungere un punto critico che permetta di dissolvere ogni giustificazione della guerra. Ciò porterebbe a compimento il «lavoro incompiuto» del Concilio Vaticano II sulla guerra e la pace, secondo un severo giudizio di Dossetti (Con Dio e con la storia, Marietti).

Scomunicare la guerra

Giancarlo Zizola osserva ovunque interesse per la proposta di un Concilio veramente ecumenico sulla pace. Gli elementi innovativi e dinamici della dottrina – la nonviolenza, la destinazione universale dei beni, l’ingerenza umanitaria che non sia la guerra, il perdono politico – necessitano di formulazioni più chiare e di scelte organiche che possano costruire un complessivo programma pastorale di pace (cfr Che fare?, in «Rivista del Volontariato», giugno 2003, e «Rocca» 1 giugno 2003). Per salvare la sostanza del soggetto umano la lotta va ripresa soprattutto all’interno dei sistemi di comunicazione e di formazione del Nord possidente. È  dunque pienamente giustificato e necessario che le religioni e le Chiese prendano nelle loro mani i destini della pace e scendano in campo – come esortava Dietrich Bonhoeffer – per ritirare in nome di Cristo le armi dalle mani dei loro seguaci, interdire loro di fare la guerra, sotto pena di scomunica, e invocare la pace su un mondo in delirio. Zizola osserva ancora che, per la prima volta, con la sua testimonianza pubblica a favore della pace, il Papa si è trovato ad essere il leader naturale di quasi tutte le Chiese cristiane e comunità ecclesiali d’Oriente e d’Occidente, ancora divise da Roma, ma ad essa congiunte nella azione per la pace e nell’obiezione alle logiche imperiali. Sembra pertanto – conclude Zizola – di poter discernere in questo «segno dei tempi» che sia venuta l’ora che dalla Chiesa romana si levi la proposta di una nuova assemblea ecumenica appositamente convocata, realmente ecumenica, cioè con la partecipazione delle chiese e comunità ecclesiali cristiane d’Oriente e d’Occidente, affinché, come suggeriva Bonhoeffer negli oscuri anni ’30, dichiari l’assoluta illegittimità della guerra e sollevi la coscienza cristiana universale a difesa della pace e della giustizia.

Concili locali dal basso

Senza illudersi che declini la realpolitik, molti ritengono che unicamente il linguaggio profetico resti in mano alle Chiese per testimoniare in modo universale, in faccia alle potenze del mondo, le ragioni alte della pace.

Intanto, l’impegno di base dei cristiani, insieme ad ogni cercatore di pace, potrebbe suscitare ovunque «processi conciliari per la pace» nelle chiese locali, mossi dal basso, cioè dallo Spirito diffuso, per camminare nella direzione profetizzata dal martire Bonhoeffer: una Chiesa disarmata che disarma i cristiani. In questo spirito si è mosso un appello di base, nei mesi scorsi, rivolto al Papa perché parlasse non solo ai potenti che decidono la guerra, ma direttamente alle coscienze dei cristiani che la combattono e vi collaborano, chiedendo loro di obiettare alla guerra per obbedire all’umanità e all’evangelo. Simili «processi conciliari» annuncerebbero nelle opere un mondo di pace, cioè un mondo in cammino per escludere l’uso della morte e del dominio dai mezzi della politica, arte della convivenza nella differenza. 

Enrico Peyretti
 

(1) Vedi Giuseppe Mattai, Bruno Marra, Dalla guerra all’ingerenza umanitaria, SEI, Torino 1994; Giuseppe Mattai, La pace: domande gravi, risposte stimolanti, Ed. Ennepilibri, Imperia 1999; Pierluigi Consorti, L’avventura senza ritorno. Inter-vento e ingerenza umanitaria nell’ordinamento giuridico e nel magistero pontificio, Edizioni PLUS, Università di Pisa 2002; Massimo Toschi, L’angelo della pace, Quaderni di «Missione oggi», n. 5, ottobre 2002: Toschi è il più severo degli autori citati nel segnalare ritardi ed esitazioni del magistero a togliere ogni giustificazione alla guerra.


 
 
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