CINEMA
Buongiorno, notte


La notte a cui Bellocchio sembra voler dire buongiorno, con un verso di Emily Dickinson, è il terrorismo che rapì e uccise Aldo Moro, venticinque anni fa, ma certo è anche il terrore che la violenza, nostra e altrui, sempre ci infligge, oggi ci infligge.

C’è un’alba, c’è un giorno, in questa notte? Se c’è, è in qualche nascosta notturna regione dei cuori, di qualche cuore non interamente violato dalla propria e altrui violenza.

Una donna, giovane, piega con cura le calze del prigioniero, che in questo gesto ne scopre la presenza tra i suoi invisibili carcerieri. In questa donna, che conserva un contatto visivo e uditivo, attento, con la gente comune, sull’autobus, nel luogo di lavoro, in una festa di parenti, si insinua lo stupore per ciò che sta facendo con i compagni, nasce il dubbio e la pietà per il vecchio catturato e rinchiuso. Per gli altri, che non vediamo mai uscire al sole, lo stupore è solo per il fatto che il popolo, invece di rivoltarsi, applaude Lama, il sindacalista, quando condanna la lotta armata. Si erano illusi che la comparsa della stella delle Br in un ufficio – «Allora ci siamo!» – fosse l’inizio della rivoluzione anche tra gli impiegati.

La loro dottrina è ferrea, una verità senza la pietà per l’altro, che solo il dubbio su di sé può suggerire. Il giorno della verità e della giustizia, luci innegabili eppure negate – ed è questa la prima violenza! –, deve conservare un poco delle ombre protettive e intime della notte per non farsi abbagliante e schiacciante, contro l’umanità di chi la impugna e contro il diritto imprescrittibile di chi ne è colpito, fosse anche colpevole. Dunque diciamo anche: buona notte, giorno! C’è una notte sterile, senza giorni nel grembo, e c’è la notte viva, feconda, dei sogni.

La donna esce dalla notte di morte soltanto col sogno. Dai primordi umani, il sogno non è solo vanità, o terrore, ma premonizione, profezia, utopia, rivelazione celeste. Nel film, è soltanto nei sogni, che ai nostri occhi di spettatori dapprima si confondono con la realtà, per esserne alla fine espulsi, che il condannato è liberato. Nelle ultime immagini si alternano il cammino svelto del vecchio sotto una pioggerella nell’alba (e la ripresa recente ha colto anche, lontana sul fondo, una bandiera iridata della pace dai colori ancora grigi nella scarsa luce), e la parata in lutto degli uomini del potere, quelli che assicurano la stabilità e la staticità delle cose, nel bene e nel male. Di quelle cose che vanno cambiate, ma con una verità mite, una luce delicata come quella dell’alba, quello stato di sogno che introduce il giorno nella notte, e conduce la notte nel giorno.

***

A proposito del film di Bellocchio e delle discussioni in corso sull’animo dei terroristi, vorrei ricordare che il 12 febbraio 1980 le Brigate Rosse uccidevano all’Università di Roma Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Durante il rito funebre, ripreso dalla televisione, il figlio minore Giovanni (24 anni) pregò per gli uccisori del padre e, a nome della famiglia, annunciò il perdono. Quasi quattro anni dopo, un fratello dell’ucciso, il
padre gesuita Adolfo Bachelet, ricevette da diciotto brigatisti rossi una lettera (che pubblicò in seguito nel suo libro Tornate ad essere uomini, Rusconi), di cui riporto il brano seguente: «Sappiamo che esiste la possibilità di invitarla qui nel nostro carcere. Di tutto cuore, desideriamo che Lei venga e vogliamo ascoltare le sue parole [...] Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante i funerali del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano là, a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato della morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevocabile [...] Per questo la sua presenza ci è preziosa: ai nostri occhi essa ci ricorda l’urto tra la nostra disperata disumanità e quel segno vincente di pace, ci conforta sul significato profondo della nostra scelta di pentimento e di dissociazione, e ci offre per la prima volta con tanta intensità l’immagine di un futuro che può tornare a essere anche nostro. Solo alcuni di noi si sono aperti in senso proprio alla esperienza religiosa, ma creda, padre, che tutti, nel momento in cui con tanta trepidazione la invitiamo, ci inchiniamo davanti al fatto puro e semplice che la testimonianza d’umanità più larga e vera e generosa sia giunta a noi da chi vive in spirito di carità cristiana».

Enrico Peyretti



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