UNA LETTURA ESCATOLOGICA
Il fico sanissimo

La lettera del sig. Grillo, pubblicata nell’ultimo n. 304 con una breve risposta di A. Bodrato, era tutta imperniata sul brano evangelico del cosiddetto “fico sterile”. Ora, il passo di Marco 11,12-14 sul fico privo di frutti mi sembra rientrare pienamente nel messaggio escatologico di Gesù, che attende a breve scadenza gli eventi finali di salvezza. È quindi un racconto escatologico, di radicale rottura e superamento, e non una maledizione o una condanna; maledizione lo è diventato in un secondo tempo, con la visualizzazione e la concretizzazione del suo seccarsi (che in Mc è successivo, perché avviene il giorno seguente dopo l’entrata a Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal Tempio); abbiamo così la trasformazione finale in un cosiddetto “miracolo della natura”. Ma il detto e il fatto originari mi sembrano molto antichi: Gesù si rivolge direttamente al fico quasi come a una persona («E rispondendo gli disse..»; ma il gerundio «rispondendo», apokritheis, non figura nella versione della Cei). Si ricorda espressamente che non era la stagione dei fichi (maturi). Perché mai uno dovrebbe cercare dei frutti fuori stagione? Ad es. dei grappoli d’uva a marzo? Certo Gesù si avvicina per cercare qualcosa, ma non necessariamente dei frutti se quella non era la stagione. Si può inoltre avvertire una certa somiglianza con Mc 14,25: «Non berrò più del frutto della vite...», che è una frase molto arcaica, quasi sicuramente del Gesù storico.

Parecchi commentari rilevano subito come l’ «ebbe fame» iniziale sia molto probabilmente un’aggiunta posteriore, per una serie di ragioni tra cui quella più comprensibile è il fatto di essere appena uscito da Betania (dove in genere Gesù pernottava quando era a Gerusalemme, forse a casa di Marta e Maria), quindi è improbabile che fosse digiuno... Ma se togliamo la fame, abbiamo un Gesù che si avvicina al fico per cercare qualcosa; essendo fuori stagione, è improbabile che stia cercando dei fichi commestibili. L’albero del fico è comunque sano, vivo e vegeto, per nulla sterile e tanto meno secco; e in linea di massima è destinato a rimanere tale, perché si dice che nessuno mangerà i suoi frutti, ma non che esso non li produrrà (come invece nella successiva rielaborazione di Mt 21,19, in cui la maledizione e la condanna sono chiare: «Non nasca più alcun frutto da te»). Quindi tutta la prima parte delle considerazioni del sig. Grillo sono superate.

La svolta epocale è vicina

Ma veniamo alla frase centrale, al loghion vero e proprio del v. 14; possiamo provvisoriamente tradurre: «Mai più, in eterno, nessuno dovrà mangiare frutto da te». Resta da decidere come intendere l’ottativo fagoi: «nessuno dovrà mangiare», oppure «nessuno mangi», o «nessuno potrà mangiare, nessuno possa mangiare» (versione Cei), e così via. Ma il problema forse più importante è l’interpretazione di eis ton aiôna: può significare semplicemente «in eterno» (così in E. Schweizer, R. Pesch, J. Gnilka e R. Schnakenburg), «per sempre», come ulteriore intensificazione del «mai più» (mêketi); può quindi essere considerato pleonastico (e infatti è stato tralasciato nella versione della Cei). Ma un’espressione tipo «in eterno» o in saecula saeculorum mi pare francamente spropositata per un fico.

Ricordiamo che aiôn in greco è uno dei termini per indicare il tempo, assieme a kronos e kairós; può essere reso barbaramente e brutalmente con «eone»: significa tempo continuato, durata, età, secolo, secolo presente, mondo (come le preoccupazioni del «mondo» e l’inganno della ricchezza nella spiegazione della parabola del seminatore in Mc 4). È per questo che altri studiosi propongono una traduzione più letterale: «fino alla fine di questo eone», «fino alla fine di questo tempo/mondo», «per questo eone, durante l’eone presente, fino alla fine dell’epoca attuale» (così, con sfumature diverse e variazioni sul tema, H. Giesen, H. Bartsch, J. Derret, B. Violet, R. Hiers e Schenk). Sarebbe quindi un detto apocalittico di Gesù che attende gli eventi finali; tali eventi sarebbero accaduti così presto che nessuno avrebbe più avuto il tempo di mangiarne il frutto. Naturalmente tutto questo si regge anche traducendo eis ton aiôna con «in eterno». Cioè la fine dell’eone presente, del mondo attuale, insomma la fine del vecchio tempo/mondo arriverà prima ancora dell’apparire dei fichi (così esplicitamente Bartsch e Schenk). Ricordiamo che allora in Palestina le foglie apparivano all’inizio della primavera (cfr Mc 13,28: «Dal fico imparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina»): il che attesta che Gesù era un attento osservatore dell’interconnessione fra lo sviluppo dei fichi e le stagioni. Il fico ha di norma (in Palestina, ma anche da noi soprattutto nel sud-Italia) due tipi di ricettacoli: i fioroni o primaticci, che maturano in primavera avanzata (fine-maggio), e i veri e propri fichi, che maturano sul finire dell’estate (agosto-settembre).

Possiamo quindi avanzare la seguente ipotesi: Gesù va a vedere bene fin sotto il fico, allontanandosi leggermente dai discepoli («E i discepoli l’udirono», se non è secondario per fare poi il ponte col ricordo di Pietro la mattina seguente, segnala che Gesù si è momentaneamente staccato da loro); sta cercando «qualcosa» (ti): non si dice, anche se sarebbe stato molto semplice e lineare, che si avvicina per trovare qualche frutto con cui sfamarsi. Esiste anche una variante: idein ean ti esti, «per vedere se c’era (o c’è) qualcosa». Ci sembra di poter dire che Gesù controlla la situazione del fico: per vedere se è nello stato primaverile delle sole foglie, o per assicurarsi che non siano eventualmente già comparsi i primi fioroni, o per constatare, supponendo di essere più avanti con la stagione agricola, la definitiva scomparsa della prima fruttificazione dei primaticci. Ricordiamo che il contesto fa parte della tradizione sugli ultimi giorni trascorsi da Gesù a Gerusalemme: lo scontro finale con le autorità di Gerusalemme, la cacciata dei mercanti nel Tempio, il suo discorso escatologico, l’ultima cena con i discepoli, la sua passione e morte. Quindi gli eventi finali, la fine dell’eone presente, l’avvento del nuovo eone e del Regno, l’intervento salvifico definitivo di Dio collegato con la sua passione e morte... – tutto questo era per Gesù talmente vicino che nessuno avrebbe mangiato i fichi. Ma si trattava forse di pochi mesi? Il Regno veniva così immediatamente? Ci pare che non sia il caso di esagerare con la cronologia; è meglio non irrigidirsi sui tempi e i momenti, che stanno sotto la potestà del Padre (Gesù stesso afferma di non conoscerli).

Dal detto-parabola al miracolo

L’ipotesi da noi proposta ci sembra chiara: l’intervento escatologico di Dio è talmente vicino che il fico non avrà il tempo di maturare i suoi frutti, e di conseguenza nessuno riuscirà a mangiarli. Violet e Hiers confrontano anche il nostro testo con Mc 14,25: «In verità vi dico che non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio». Una frase tutt’altro che pasquale, che porta invece la carica del più genuino carattere apocalittico. Verosimilmente Gesù andava alla morte non come a una sconfitta della sua missione, ma con la sicurezza che il Regno di Dio sarebbe giunto ben presto. In questo Regno si sarebbe mangiato e bevuto in un modo e in una condizione totalmente diversa. In questo banchetto escatologico, con tutti i popoli radunati nella nuova Sion, lui sarebbe stato uno dei commensali: l’intervento definitivo di Dio era vicino. L’attesa escatologica come evento prossimo domina tutta l’ultima fase della vita di Gesù e anche della chiesa nascente. Tale chiesa però, nella sua seconda o terza generazione, visto che la fine (interpretata ora come parusia o fine del mondo classica) non arrivava, ha riletto e reinterpretato il nostro detto e tutta la pericope come una maledizione, con il conseguente “miracolo della natura” del seccarsi del fico (che, come la tempesta sedata, il camminare sulle acque e le nozze di Cana sono giudicati dalla quasi-unanimità degli esegeti come racconti simbolici non storici); ciò può forse disturbare molti dei nostri lettori, ma la pedagogia dei vari livelli del testo è necessaria per evitare sia il fondamentalismo che una certa narratologia oggi di moda.

Abbiamo anche la parabola di Luca 13,6-8 con la supplica del vignaiolo nei confronti del padrone ad avere pazienza; questa parabola lascia aperta la “conversione” di Israele, e potrebbe essere concomitante o addirittura antecedente al livello più antico del nostro loghion, che non è assolutamente una condanna. La rottura-condanna di Gesù è radicale nei confronti del tempio, del suo culto e del suo sacerdozio, ma non nei confronti di Israele. Solo nel secondo e nel terzo livello del nostro ‘detto’ abbiamo una maledizione-condanna che finisce in un miracolo. Gesù non è andato alla morte con questo atteggiamento di condanna; è stata semmai la sensibilità dei primi discepoli a radicalizzare l’atteggiamento di Gesù contro Israele.

Il fico e il tempio

Proprio il detto sul fico conferma il principio dell’attesa escatologica e della venuta del Regno da parte di Gesù; ma anche il carattere di speranza nell’intervento di Dio. Così preannuncia la svolta definitiva, l’intervento ultimo di Dio per la salvezza.

L’avvento del nuovo eone significa pure il radicale superamento del tempio, della città santa di Gerusalemme, e di tutta l’economia salvifica a essi correlata. Questo diventa ancora più chiaro nel secondo livello (quello della maledizione), e pure nel terzo, quello redazionale di Marco. Anche secondo J.P. Meier il fico e la purificazione del tempio sono strettamente interconnessi, e si illuminano a vicenda. Quindi nei livelli posteriori «Gerusalemme è un fico carico di foglie ma privo di frutti e soprattutto è un albero, che dopo aver molto promesso, non sa offrire nella storia il più piccolo segno di precorrimento del Regno, destinandosi così alla sterilità. La presenza della città santa, del suo tempio, dei suoi sacerdoti... sta lì a dirci che il Regno si potrà realizzare, non grazie alla loro sostituzione con altre città sante, altri tempi, altri sacerdoti, ma solo grazie al loro radicale superamento» (A. Bodrato, Il vangelo delle meraviglie, Cittadella 1996, pp. 158s). Mentre per Marco non c’è più tempo storico per un nuovo Israele e neppure spazio teologico per l’istituzionalizzazione della sequela (ibid., pp. 159s), per Luca e le generazioni seguenti è quasi il contrario: «Pietro e Giovanni salivano al Tempio per la preghiera dell’ora nona» (Atti 3,1); prescindendo dalla questione se l’abbiano veramente fatto, l’attesa dell’irruzione vicina del Regno e il carattere superato del Tempio sono ormai speranze che in Luca si sono spente. Purtroppo col passare dei secoli si è diluito e di fatto annullato il messaggio escatologico di Gesù, con l’escatologia ridotta ai «novissimi» (morte, giudizio, inferno e paradiso). Ma il Regno di Dio annunciato e inaugurato da Gesù non è il paradiso (anche se «l’altra vita» rientra nel suo pensiero).

Mauro Pedrazzoli


 
 
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