RISORTO O VIVO NEL RICORDO? (9)
Salvezza oltre la morte e la storia?


Per riaffermare la centralità della resurrezione di Gesù nella teologia cristiana, è buona consuetudine richiamare il passo in cui Paolo afferma: «Se non c’è resurrezione dei morti, Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione ... e noi siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (1Cor 15,12-19). Il passo è decisivo per collegare l’annuncio, tipicamente cristiano, della resurrezione del Crocefisso con la più generale credenza giudaica nella resurrezione dei morti.

Ora, questo collegamento è possibile, anzi, in un certo senso necessario, per Paolo, per Luca, per Giovanni e per gli altri scritti neotestamentari, ma non per Marco e Matteo, che, pur segnalando l’adesione di Gesù all’attesa della resurrezione propria dei farisei (Mt 22,23-33; Mc 12,18-27), si limitano a sottolineare che l’evento pasquale apre la via a una nuova missione evengelizzatrice (Mc 16,7 e Mt 29,16-20). Matteo, poi, afferma che il Risorto ha ottenuto «ogni potere in cielo e in terra» (29,18) e si presenterà alla fine dei tempi, come «Figlio dell’uomo» in veste di giudice universale (20,31-46), ma non sviluppa come tema specifico la relazione tra questi due enunciati.

Del resto con Giovanni, anche Paolo e Luca, valorizzano l’annuncio di resurrezione di Gesù, prima in chiave teologica, cristologica, pneumatologica ed ecclesiologica che escatologica. Dio si è rivelato in Gesù non come il Dio della potenza terrena, ma della misericordia e della predilezione dei poveri, dei deboli e dei peccatori. Gesù, crocefisso dagli uomini e resuscitato da Dio, è, proprio per questo, riconosciuto Messia e innalzato al cielo. La sua missione può, dunque, riprendere con slancio, perché egli è vivo coi suoi, nelle loro azioni e nelle loro parole, ed è vivo presso Dio. Non solo, ma può avere un’efficacia nuova, perché egli ha mandato sui suoi lo Spirito e con la propria apparizione li ha confermati apostoli e costituiti continuatori autorevoli della sua opera.

Una salvezza kenotica

Il che può essere proclamato senza esplicita menzione della resurrezione corporea del Crocefisso, ma non reggere senza implicito riferimento a essa. Non dura se non risponde all’urgenza di chiarirne il significato per coloro che hanno accolto l’insegnamento di Gesù e hanno ancorato alla sua sequela le loro attese di piena realizzazione della vita. Non può fare a meno dell’orientamento soteriologico ed escatologico del vangelo, che è annuncio di salvezza del singolo e di pieno compimento della creazione e della storia nel «Regno».

La resurrezione non va interpretata come l’iniziativa con cui Dio pone riparo alla tragedia della croce e ricompensa Gesù del suo patire, costituendolo Figlio. Essa si presenta come una rivelazione nuova e inattesa del divino, che, mentre dice il senso del Crocefisso, lo eleva a modello dell’essere redentivo di Dio. Parlando della croce come segno di salvezza, la trasforma da opera umana di violenza e di morte in donazione di vita per gli amici e, nella manifestazione suprema di tale dedizione all’altro, la rende dono di Dio per quel creato che lo disconosce e respinge.

È questo il significato della lettura kenotica che l’inno di Filippesi 2, Giovanni del prologo e della passione, il Gesù lucano di Emmaus danno della vicenda teologica del Nazareno e, alla fin fine, di tutta la storia salvifica della Bibbia. «La formula della risurrezione: Dio ha resuscitato Gesù crocefisso dai morti, fa innanzitutto una nuova affermazione su Dio; essa racchiude una nuova esperienza di Dio, cioè l’esperienza pasquale fondamentale dell’avvento escatologico definitivo e irrevocabile del Dio dei perduti di questo mondo» (H. Kessler, La resurrezione di Gesù, Brescia 1999, p. 99). «La resurrezione di Gesù non è puro atto dichiarativo, ma è atto creativo. È nuova azione di Dio di tipo escatologico ... Tanto che possiamo ben dire che nella resurrezione di Gesù si rivela il volto cristiano di Dio» (F. G. Brambilla, Il Crocefisso risorto, Brescia 1998, p. 264).

In questo senso ben a ragione, negli anni terribili della seconda guerra mondiale, uno scrittore ebreo poteva rispondere a chi gli chiedeva dove era Dio nei giorni della Shoà: «Appeso con gli impiccati al palo della forca», e un teologo giapponese e uno tedesco potevano scrivere: «L’ultima parola dell’evangelo, espressa nell’immagine del Crocefisso risorto, è il dolore di Dio. Questo perché quando vuole mostrare il suo dolore Dio lo fa mediante il dolore degli uomini di questo mondo» (K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio, Brescia 1975, p. 72); «Dio si lascia scacciare dal mondo sulla croce. Dio è impotente e debole nel mondo e così, soltanto così rimane con noi e ci aiuta ... La Bibbia indirizza gli uomini all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio che soffre può venire in aiuto» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano, 1969, p. 265).

Quando dice a Pilato «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), Gesù non afferma che il suo non è un regno politico, ma che è un regno presente tra i regni di questo mondo a rovescio, nella persona cioè delle loro vittime. Accomunate al Crocefisso di Dio, queste possono affidarsi alla sua resurrezione e attendere la propria in un mondo reso altro da sé, risanato dal male e purificato dalla violenza («Non sono venuto per condannare ma per salvare il mondo», Gv 12,47).

C’è un futuro per la storia?

«Fondata sulla resurrezione di Cristo, sfigurato dalla passione, la speranza cristiana di futuro è speranza di resurrezione. Se non c’è speranza per il passato, non c’è speranza neanche per il futuro, perché ciò che diviene è destinato a passare, ciò che nasce un giorno morirà e quello che ancora non c’è un giorno non ci sarà. La speranza della resurrezione non è, infatti, orientata verso un futuro nella storia, bensì al futuro della storia, dove si risolveranno le tragiche dimensioni della società e della natura. Qualificare il futuro della storia con la resurrezione significa incontrare in essa il suo passato» (J. Moltmann, in R. Gibellini, Prospettive teologiche per il XXI sec., Brescia 2003, p. 41).

È quanto dicono, con diverso linguaggio la Prima lettera di Pietro e la Prima ai Corinti, rivolte l’una al presente e al passato, l’altra al presente e al futuro. «Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurci a Dio. Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. In spirito andò ad annunciare agli spiriti, che attendevano in prigione ... fin dai giorni di Noè ... Infatti è stata annunciata la buona novella anche ai morti, perché, pur avendo subito, con la perdita della vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano secondo Dio nello spirito» (3,18-20 e 4,6); «Cristo è resuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la resurrezione dei morti; e come tutti morirono in Adamo, così anche tutti otterranno la vita in Cristo. Ciascuno nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia, poi alla sua venuta, quelli che sono con Cristo; poi sarà la fine quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza ... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte ... affinché Dio sia tutto in tutti» (15,20-28).

La resurrezione non riguarda solo la verità di Dio, di Cristo, della chiesa e dello Spirito. La resurrezione è anche un evento di salvezza che coinvolge, insieme a coloro che ne ascoltano e ne ascolteranno l’annuncio, coloro che sono morti da tempo e persino gli angeli imprigionati prima del diluvio e i principati che ancora hanno poteri nel mondo. La resurrezione parla della salvezza nella prospettiva delle realtà e dei tempi ultimi, visti non come irruzione di un mondo eterno e perfetto alternativo e parallelo al nostro e neppure come la spiritualizzazione di questo, ma come la sua trasformazione radicale che, attraverso l’unione d’amore con Dio, ne salva le identità liberandole, se non da ogni traccia di male fatto e subito, da ogni tentazione e minaccia di male ulteriore.

Il passaggio dall’escatologia, profeticamente intesa come preannuncio che la salvezza avverrà alla fine della storia ma dentro la storia stessa, all’apocalittica, neotestariamente intesa come rivelazione del senso ultimo della storia, attuato da Dio oltre la storia stessa con l’inveramento di tutto il suo cammino, trova nella fede nella resurrezione dei morti l’espressione più condivisa e condivisibile. Chi professa una fede apocalittica è, infatti, chi assume la dimensione temporale e storica della vita umana e della rivelazione divina non come occasionale, ma come essenziale e simbolicamente carica di inevasibili rimandi alla realtà dell’uomo e di Dio.

«Anche se assunto come simbolico il dialogo: “Vieni presto, Signore!”: “Sì, vengo!” (Ap 22, 17-20) pone la vita del credente nella prospettiva dell’attesa e resta una chiave di volta fondamentale per capire l’Apocalisse, la quale non avrebbe avuto l’impressionante pregnanza di influssi che le sono propri, se fosse stata sempre intesa semplicemente come una descrizione simbolica di quanto è già “tutto compiuto” (Gv 19,30)» (P. Stefani, Dies irae, Bologna 2001, p. 113).

Riscatto del corpo, riscatto del creato

Tutto ciò ha qualcosa a che fare col tema della corporeità del Risorto e dei risorti? Secondo il linguaggio evangelico e quello paolino, che sanno, come noi sappiamo, di doversi esprimere per metafore, certamente sì. Infatti le metafore, mentre rifuggono da ogni interpretazione realistica e da ogni oggettivazione metafisica, esigono anche una lettura che le rispetti nella loro specificità e che eviti di far dire loro il contrario di quanto dicono; nel nostro caso, che «corpo» vuol dire «anima» e «spirito» «realtà disincarnata e destoricizzata», mentre proprio questo la simbologia biblica vuole evitare: confondersi con la concezione greca e gnostica dell’uomo e del suo destino.

Per brevità potremmo dire che mentre per i Greci l’uomo è un’anima che possiede un corpo e per gli gnostici uno spirito, appesantito da un’anima e da un corpo, per la Bibbia l’uomo è corpo, anima e spirito; è un’unità centrata sull’identità della persona e colta nella sua storica relazionalità con Dio, con gli altri uomini e col creato. Per cui si può ben dire metaforicamente che risorgere comporta per l’uomo l’abbandono del corpo mortale al fine di rivestirne uno immortale; che esige la caduta degli aspetti più secondari ed effimeri della fisicità e della storicità, ma che non produce la cancellazione di quanto l’ha reso essere unico e insostituibile. Ne va dell’identità stessa del Crocefisso, della serietà della morte, che è sempre tragedia individuale, della giustizia e dell’amore di Dio che, se non sapesse discernere e cogliere il particolare, sarebbe cieco e insensibile.

D’altra parte, mentre difende l’individualità del singolo dall’annegamento nel mare magnum dell’universale, nell’indistinto della necessità, nella notte in cui tutto si fa eguale e si perde, nella confusione dell’essere col nulla, del bene col male, della libertà col caso, il simbolo della resurrezione corporea dei morti difende anche l’unità relazionale di Dio e del creato.

Paolo, che inventa l’ossimoro «corpo spirituale» e parla di «trasformazione» che rende «questo corpo corruttibile» capace di «incorruttibilità» (1Cor 15,44-52), ce lo fa intuire quando afferma: «Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata a noi» e non a noi soltanto che «possediamo le primizie dello Spirito», ma all’intera creazione. «Sottomessa anch’essa alla caducità», la creazione attende, infatti, con impazienza la nostra adozione-rivelazione a figli di Dio, la redenzione del nostro corpo. Geme e soffre le doglie del parto nella speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione. Soffre, spera, attende e prega con noi le parole dello Spirito (Rm 8,19-27).

«In un simile contesto, la dimensione della differenza e della solidarietà tra il credente e il creato si svela, sia in riferimento alla presenza delle primizie dello Spirito sia in relazione alla dimensione comune di una corporeità che nella sofferenza attende la redenzione. L’anelito di tutto il creato trova voce nel credente che, in virtù della presenza dello Spirito, riesce a rendere la stessa diversità momento di intensa prossimità e comunione» (P. Stefani, op. cit., p. 180).

«Dove mai l’uomo, nell’insopprimibile inquietudine per quello che è, nel desiderio per quel che non è, potrebbe volgere gli occhi senza incontrare altri occhi rivolti a lui con la stessa inquieta nostalgia, anzi, più ancora, con una domanda che si rivolge a lui solo?» (K. Barth, L’epistola ai Romani, Milano 1962, p. 188). Quegli animali, evocati da Dio nel grande bestiario dell’atto creativo sovrano, inteso a piegare al silenzio la protesta di Giobbe (Gb 38-39), ora diventano suoi compagni in un cammino che anela alla redenzione sotto la guida dell’ombra teofanica del Crocefisso risorto.

L’amore, follia di Dio

È lo Spirito di Dio che dà voce alle speranze dei credenti e alle attese della creazione, perché «lo Spirito è Dio che consoffre nella propria creazione, trasformando quell’universale dolore in doglie del parto. Con queste sue affermazioni Paolo allarga a dimensioni cosmiche una condivisione che, per più di un aspetto, richiama quella espressa dall’ebraismo attraverso l’appello alla Shekhinà, la presenza di Dio che condivide la condizione esilica del popolo» (P. Stefani, op. cit., p. 184).

La resurrezione dei morti è speranza di salvezza per l’uomo, per il creato e per Dio ed è tale solo come frutto di quello scambio di fede e amore che ha nel Crocefisso risorto la sua primizia e la sua follia. Follia della resurrezione dei morti, follia dell’innalzamento a Dio del reietto dal mondo, follia della predilezione di un popolo di schiavi ribelli, follia della creazione dal nulla. Vogliamo chiamarla grazia e amore? Chiamiamola come ci pare. Sempre di pura e lucida follia si tratta.

Aldo Bodrato

Si chiude con questo articolo una serie dedicata da A. Bodrato alla resurrezione, iniziata con il numero 297.


 
 
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