INTERVENTO |
Sulla violenza biblica e umana |
Gentili amici del foglio, gentile signor Peyretti, ho apprezzato toni e contenuti della risposta apparsa sul foglio di marzo alla mia “provocazione” critica sull’Inferno secondo Peyretti. Ovviamente in quella occasione avevo usato l’arma del grottesco, del ridicolo, perché penso che ogni verità degna di tal nome debba confrontarsi senza sfigurare con queste categorie: d’altronde ho il sospetto che nulla più che l’infinita serie di barzellette o di (brutte) pubblicità televisive abbia contribuito a distruggere, demitizzando, la tradizionale immagine dell’Inferno con corollario di fiamme e belzebù e del Paradiso tra nuvole e angeli ecc., in modo più incisivo che qualsiasi razionale teologia dell’aldilà. Vero è che teologi di più moderna sensibilità interpretativa, tendono a parlare del “silenzio di Dio” come contrappasso nell’aldilà per colui che in scienza e coscienza ha rifiutato Dio in questa vita: ma anche qui un diavoletto mi suggerisce che questo potrebbe essere un escamotage dei teologi per risparmiare ogni responsabilità al buon Dio, caricando vieppiù le già ricurve spalle umane! Concordo ovviamente sul fatto che sull’aldilà si può parlare solo in via di ipotesi, per quanto lecite o ragionevoli: nondimeno resto dell’avviso che l’idea di una giustizia divina che sempre e comunque assolve nella sua infinita misericordia, per quanto affascinante e perfino meravigliosa, finisca per deresponsabilizzare l’uomo di fronte all’eterno e irrisolto problema del bene e del male, qualora l’uomo si convinca “troppo” fermamente che comunque vada, il Signore se lo prenderà con Sé, cancellando in ogni caso il passato: finisca inoltre per avvalorare ai nostri occhi limitati una banale immagine di Dio infinitamente “buonista”, non meno banale del Dio giustiziere senza macchia. Mi pare allora che in questa visione manchi, come dire, un elemento di suspense, che si abbia la pretesa di troppo conoscere la volontà finale di un Dio, depurato di ogni idea non dico di terribilità (fin qui posso concordare), ma perlomeno di temibilità. Temo Dio se non altro perché, da uomo, lo posso desiderare o amare ma non lo posso conoscere totalmente (si teme ciò che non si conosce), in quanto Egli è pur sempre l’Altro; attraverso la incarnazione di Gesù Cristo Egli certo mi si rivela in modo totalmente nuovo, mi apre una nuova prospettiva di salvezza, tuttavia mi pare chiaro che in questo progetto di salvezza qualcosa del mio ci devo mettere, troppo comodo delegare totalmente, tanto alla fine le castagne dal fuoco ce le toglie Lui. In quanto poi all’agire sperando ricompense o temendo castighi, che dire, Dio sa leggere nel cuore dell’uomo e saprà regolarsi di conseguenza: in fondo Gesù stesso non è certo stato tenero con gli ipocriti, anzi. In conclusione, tendo a credere che una qualche giustizia ci sia, per quanto a noi imperscrutabile e misteriosa, e tuttavia perfetta, se Dio è perfetto: sicché, non possiamo dare per certo, poniamo, che uno Stalin non si sia salvato, nonostante l’immenso male compiuto su questa terra, poiché Dio avere disposto diversamente da quanto da noi poveri uomini generalmente creduto e perfino auspicato. Per questo, secondo me non sbagliava il giovane Peyretti a voler pregare per l’anima del piccolo Padre; però è anche umanamente comprensibile la reazione del prete tradizionalista, pur teologicamente in torto, che si rifiuta di assecondare il desiderio di quel giovane un po’ candido un po’ bastiancontrario, avendo certo più coscienza di costui che quell’uomo era stato un autentico demonio. In ogni caso, raccolgo senz’altro il suggerimento di leggere il libro di Desmond Tutu, di cui conosco per sommi capi la vicenda e la grandezza umana: ho già ordinato il libro. Per il resto, ero partito dalla lettura dell’articolo Basta con la violenza biblica, e vorrei qui esprimere ciò che non mi convince, specificando che naturalmente non sono un esegeta della Bibbia, e non ho la pretesa di navigare a certe altitudini. Tuttavia mi ha colpito la contraddizione di Enrico Peyretti, che nel mentre rifiuta radicalmente la violenza biblica, usa le immagini violentissime, incise nell’immaginario collettivo, del crollo delle Twin Towers a scopo esegetico (la morte dei potenti che sbalordiscono, bruciano e ardono come grattacieli polverizzati). Operazione legittima, per carità, ma forse non dissimile per certi versi dall’intento di certi biblisti. nella rappresentazione clamorosa della violenza di Dio. Aggiungo poi che suggerire che l’apocalisse dell’11 settembre non significa distruzione, bensì rivelazione, è una affermazione non priva di ambiguità e perfino un po’ cinica dal punto di vista delle vittime (e non solo), se non meglio acclarata. (in ogni caso, anche qui appare la presenza di Dio, guarda caso, sullo sfondo di un atto di estrema violenza!). Infatti, così come gettata là nel foglio, la “rivelazione” – non esplicitata ma sottintesa – sembra essere «Ecco cosa può toccare ai potenti della terra, e alla loro ubris... firmato: Dio». Mi perdoni Peyretti, e mi perdoni anche il cardinal Martini che ha detto qualcosa di molto simile, oltretutto in un contesto di critica del modello occidentale, ma sono certo che nessuno, a ragione, ha successivamente osato parlare di “rivelazione” a proposito dell’apocalisse scatenata su Baghdad dalle bombe americane. Vero è che Peyretti, a differenza di Martini, non cita espressamente la tragedia di New York, ma il riferimento mi sembra inequivocabile nel suo contesto: sarei dell’avviso in questi casi di lasciare agli uomini ciò che è degli uomini, lasciando stare Dio e presunte Sue rivelazioni. Così come lascerei stare il collegamento, che mi pare assai forzato, tra la violenza biblica e la politica violenta dello Stato di Israele, se non altro perché tutto mi pare, tranne che il governo di Sharon giustifichi le sue azioni tirando in ballo il Dio di Abramo. Non mi sembra che Israele stia abdicando alla sua tendenziale laicità, e sono convinto che le motivazioni del suo governo sono legate principalmente a motivi di sicurezza dopo la serie infinita degli orribili attentati terroristici, quelli sì quasi collettivamente dal popolo palestinese giustificati in nome di Dio (e questo andava ricordato, per giustizia e per contrapposizione logica e analogica, ma Peyretti non lo ha fatto). Non voglio nascondere i torti, gli errori e la limitatezza di quella che comunque è stata una reazione all’Intifada: tuttavia un conto è criticare anche severamente, riconoscendo che Israele si difende in modo sbagliato dall’odio palestinese, altra cosa è sentenziare che tale comportamento «produce grave confusione e danno nella vita spirituale complessiva dell’umanità». Qui siamo alla pura iperbole retorica, siamo ancora e sempre alla enunciazione del capro espiatorio, del vero unico e ben noto colpevole dei mali dell’umanità, mi spiace dirlo perché ritengo che la scivolata di Peyretti sia del tutto inconscia, forse dettata da un retroterra ideologico e non certo da personale antisemitismo. Come si può affermare infatti che, per la salute spirituale del mondo intero, sia più dannosa, mettiamo, l’eliminazione mirata e voluta di terroristi assassini o mandanti di assassini (crimine di fronte a Dio in quanto uccisione), piuttosto che il farsi e fare a pezzetti innocenti in un bar, solo in quanto ebrei (crimine non meno efferato del precedente)? Perciò, se come sostiene Peyretti la dissociazione morale dalla Bibbia violenta è divenuta necessaria, non meno necessario mi pare promuovere e sostenere analogo atteggiamento nei confronti del Corano violento, ecc. ecc. altrimenti come si può coerentemente sostenere che la pace debba giudicare tutte le religioni? Fabio Cangiotti La lunga lettera del signor Cangiotti chiama con garbo a discutere molti punti già tornati periodicamente nelle riflessioni, anche problematiche, su questo foglio. Ne riprendo solo alcuni. Sull’inferno: mi permetto di rinviare il lettore insoddisfatto della mia risposta alla sua precedente lettera (n. 300, di marzo), alla mia lettera pubblicata in argomento su «Rocca» (15 febbraio 2003). Sull’11 settembre come apocalissi, cioè rivelazione: non si tratta, evidentemente, di rivelazione di Dio, come tale, in quel crimine, ma di manifestazione della realtà del nostro mondo: l’arroganza e fragilità della potenza arcidiseguale; la proliferazione della violenza, da strutturale (che è la maggiore) a diretta (che è più impressionante), egualmente ingiustificabili. Semmai Dio c’entra (questo intendevo ne il foglio n. 297, dicembre 2002), in quanto, attraverso i nostri crimini (come si servì dei nemici di Israele), umilia superbi e violenti di ogni parte, per cercare di salvarli, insieme alle loro vittime. Sullo stato di Israele: nella infernale catena ormai quotidiana di reciproche vendette, ugualmente criminali, in un rapporto di potenza asimmetrico, ci sono, oltre il dolore umano e i calcoli politico-militari, da ambo le parti, anche estremismi violenti motivati con assolutismi religiosi, più o meno espliciti, fondati su parole o diritti “divini”, come ci sono, da ambo le parti, strenue iniziative civili e religiose condotte insieme da israeliani e palestinesi per resistere alla violenza e costruire comprensione, rispetto, pace giusta. Perciò, ogni lavoro teso a liberare le religioni, tutte, dalla riduzione a strumento politico che ne estenua il significato, e dalla violenza che le inquina ma non ne annulla il comune spirito di amore e pace, è lavoro meritorio e urgente, costruttivo di pace giusta. È fuori dal mio pensiero una teoria del «capro espiatorio colpevole dei mali dell’umanità». Nell’attuale lungo conflitto (che certo non è cominciato con l’intifada), non vale chiedersi chi è stato il primo (cfr. Due popoli, due errori, in il foglio, n. 283, luglio 2001); il merito sarebbe del primo dei due popoli che avesse sapienza e coraggio per interrompere la riproduzione di violenza, ponendo così l’unica possibile road map della pace e della vita. e.p. |