DOPO AVER VISTO BERTOLUCCI |
Confessioni cinefile |
Che The Dreamers, ultimo film di Bertolucci, sia anche un film sul cinema è cosa ovvia. Un gioco scoperto di citazioni cinefile, un film intarsiato da altri film, compresi quelli dello stesso Bertolucci – Ultimo tango indubbiamente, ma anche Novecento ad esempio, nel quale, proprio come qui, un uomo che ha fatto l’amore con una donna la scopre vergine, dopo averla creduta ricca di amanti. A quanti non risultino affetti dal morbo cinefilo, tali citazioni parranno facilmente un puro esercizio accademico (giudizio che lo spettatore malevolo potrebbe riservare alla pellicola nella sua interezza). Ma visto al di fuori del prisma di questo morbo – senza nulla sapere della passione di Bertolucci per il cinema da guardare, prima ancora che fare in prima persona – il film è destinato a rimanere monco. Certo, il sogno richiamato dal titolo non è unicamente il sogno del cinema, ma anche quello del mutamento sociale. La storia congiunge amori e ossessioni differenti, racconta di affinità emotive, di un’iniziazione sessuale, dei benefici dell’amicizia e della sua volatilità, e naturalmente del ’68, cercando di recuperare la temperie del periodo senza accentuate sottolineature politiche. Io, però, non posso fare a meno di parlarne con prospettiva cinefila, non posso evitare di ammettere il compiacimento vacuo per aver subito riconosciuto Mouchette di Bresson dalla rapida inquadratura di due gambe di bambina, o Freaks di Tod Browning dal primo baluginare di un volto deforme. Per ogni cinefilo la vita è scandita da immagini ed il riconoscimento di quelle immagini appartiene alla decifrazione, talvolta inconsapevole, della propria storia spirituale e di una maniera di vedere il mondo. Cosa analoga accade con i libri, con i quadri o con la musica. Ma viene così a concretizzarsi una possibilità: quella di rimanere chiusi nel solo spazio delle immagini – o delle parole, o dei suoni. Il film di Bertolucci evoca questo potenziale baratro fra arte e vita, tra l’isolamento estetico e la densità fisica del reale. È questo baratro che, in quanto cinefilo, ripetutamente percepisco. Ma non si tratta di un vuoto facilmente colmabile. Che la sovversione nell’arte possa divenire premessa di una rivoluzione politica, che fra le due si dia una riconoscibile contiguità, come The Dreamers potrebbe a tratti suggerire, è idea traboccante di pericolo, soglia spalancata su immani disastri, che parole quali «rivoluzione culturale» sinistramente richiamano. Il cinefilo dimora in una dimensione perennemente situata «prima della rivoluzione» (per avvalersi proprio del titolo di un vecchio film di Bertolucci), e abita in essa con abbandono estatico ed oscuro rimorso. Sia chiaro, il cinema, quando è arte, penetra nel reale ben più di qualsiasi pagina di cronaca, elargisce abbondanti verità su noi stessi e sul mondo intorno a noi, ma sopra di esso aleggia lo spettro dell’inerzia, di una solitudine che si limita a contemplare, senza il sudore ed il rischio dell’azione. Trovarsi nel ventre caldo della sala cinematografica garantisce una protezione, almeno momentanea, contro l’orrore in agguato all’esterno, ed il cinefilo orbita attorno a questo ventre protettivo con desiderio congiunto a rimprovero. Radicale contrasto che ad un innamorato dell’arte è dato facilmente avvertire: l’arte illumina la carnalità del mondo, ma al tempo stesso vivere in essa significa vivere in uno spazio disincarnato, che dall’abbraccio soffocante degli altri, dal loro patire, in qualche modo ci allontana. È forse impensabile percepire questo conflitto senza sperimentarlo come una tormentosa colpa. Una colpa simile a quella che spinse Gogol’ a bruciare una parte del suo capolavoro letterario, perché era solo arte e non tangibile redenzione. Massimiliano Fortuna |