IMMIGRAZIONE |
Da ospiti a nuovi cittadini |
Nelle ultime settimane si sono verificati fatti e registrate dichiarazioni che reclamano l’attenzione di chi, come a noi accade, non svolge soltanto un compito di registrazione dei fenomeni sociali ma opera all’interno di essi con un impulso di umanizzazione e di solidarietà. La tragedia africana Prima i fatti. Drammatici e indicibili. Sulle coste meridionali dell’Europa arrivano solo i superstiti di una mortale odissea che inizia dai luoghi del maggior dissesto africano e si consuma con vere e proprie decimazioni nella traversata dei deserti e dei mari. Giustamente si invoca una risposta europea per un maggior controllo a integrazione degli accordi bilaterali di contenimento già in essere con i paesi dell’altra sponda. Ma è giunto il momento di chiedersi se anche in questo campo non sia il caso di prendere in esame un disegno di interventi più organici. Le bare che si allineano sulle nostre banchine – ha scritto «Avvenire» – sono «l’icona del dramma di un intero continente, l’Africa, in balia dei flutti del disordine economico mondiale». È una sfida per la politica e anche per la mentalità e i costumi dei popoli europei. Se si vuole stagnare l’emorragia non basterà rafforzare la vigilanza e bloccare i mercanti dei nuovi schiavi, ma occorrerà destinare allo sviluppo del continente africano le risorse necessarie per un tempo adeguato. Poi le dichiarazioni. Che pure hanno un valore quando si presentano come autorevoli e impegnative. È il caso di quelle rese dal vice presidente del Consiglio ai primi d’ottobre a proposito dell’introduzione in Italia del voto amministrativo per gli immigrati regolari e anche per un possibile superamento del sistema delle “quote”. Ci interessa il contenuto della proposta che, nel frattempo, ha preso la forma di un disegno di legge su cui, come sugli altri testi già depositati, dovrà pronunciarsi il Parlamento. È questa la sede del confronto nel quale potranno essere esaminate e superate le difficoltà insite, per fare un solo esempio, dalla previsione di un diritto di voto condizionato al reddito. È insomma auspicabile al riguardo una positiva ricerca di convergenze, che appare del resto necessaria trattandosi di una riforma costituzionale che non gode, in partenza, di una maggioranza costituita e dovrà quindi cercare consensi sul campo. Può ricavarsene l’indice di un incipiente sentire comune su un tema impegnativo come quello dell’immigrazione, del modo di intenderla, delle soluzioni da approntare ai problemi che pone. Il voto come indice di svolta Nessuno oggi è in grado di prefigurare i tempi e i modi di approdo della proposta ed è bene mantenere al riguardo un atteggiamento di prudenza. Ma intanto è doveroso prendere atto che un dibattito si è aperto su un versante fin qui poco esplorato e che comporta scostamenti significativi dagli ormeggi abituali. In realtà oggi in Italia esistono almeno 750.000 immigrati presenti da più di 6 anni e solo 150.000 hanno avuto la carta di soggiorno, mentre migliaia di immigrati vivono la lunga attesa burocratica per avere accesso a uno strumento di cui hanno diritto. Inoltre, 350.000 persone immigrate sono presenti sul territorio nazionale da almeno 10 anni e di queste solo 100.000 – di cui L’idea del voto agli immigrati regolari può essere tradotta in vario modo. Si può operare sulla Costituzione, sulle leggi ordinarie, sulle regole di acquisizione delle cittadinanza. Ci si può fermare all’elettorato attivo o si può giungere all’elettorato passivo, come sarebbe giusto e desiderabile. Ma non ci si può accostare all’idea del voto agli immigrati, o comunque a un loro coinvolgimento partecipativo nella vita delle comunità, se prima non si è presa confidenza con il concetto di integrazione delle persone nella società in cui si innestano. Una carenza di sensibilità su questo versante avevamo evidenziato quando, in sintonia con l’avviso dei vescovi italiani, avevamo rilevato il carattere restrittivo dell’ultima legge votata in materia dal Parlamento. Non era, il nostro, un atteggiamento corrispondente alla caricatura che se ne faceva: quella che lo dipingeva come favorevole a un’apertura indiscriminata e incontrollata. Non eravamo e non siamo contrari a politiche che includano forme efficaci di controllo alle frontiere sia su scala nazionale che comunitaria. Non accettiamo invece una visione delle migrazioni che riduca tutto a questione d’ordine pubblico e l’abbiamo contrastata sia sotto il consolato del governo attuale che di quelli precedenti. Per questo anche ultimamente abbiamo segnalato ritardi, incertezze e limiti del corso delle “regolarizzazioni”, così come abbiamo espresso preoccupazioni per una tendenza europea che sembra promettere solo inasprimenti e respingimenti di massa, con un allarme speciale per la sorte dei rifugiati. A maggior ragione non potevamo tacere, e non abbiamo taciuto, in presenza di affermazioni e scelte che rivelavano tracce evidenti di una cultura chiusa ed esclusivista, come quella che subisce l’immigrazione come una infezione inevitabile dalla quale liberarsi al più presto. Non era tanto il legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno a creare apprensione, quanto le pulsioni miranti a rendere tale rapporto il più precario e breve possibile. Il richiamo di questi precedenti consente di mettere a fuoco in modo appropriato l’apprezzamento per una scelta – quella del voto – che non avrebbe significato se non presupponesse uno scenario d’immigrazione non più basato sulla precarietà ma sulla (relativa) stabilità e quindi sull’integrazione delle persone, delle famiglie, dei gruppi nelle società di arrivo. Alla presa in considerazione di una prospettiva di integrazione si può arrivare da vie diverse. Ci può essere una motivazione umanitaria o di giustizia; e ci può essere una motivazione di realismo politico che vede l’integrazione come un argine al disordine sociale. Con la filosofia semplice di papa Giovanni noi diciamo che conta non il punto di provenienza ma quello di arrivo. Il voto agli immigrati non può non essere, sotto tale profilo, che il riflesso di una scelta di campo, appunto, per un’integrazione graduale ma senza ripensamenti di quanti vengono da noi; perché noi ne abbiamo bisogno e perché hanno il diritto di essere considerati come esseri umani e non come strumenti «usa e getta». La scuola alla prova dell’intercultura È a questo punto che va innestata una riflessione su quella che molto impropriamente è stata classificata come la disputa sul crocefisso e che va invece rapportata alla complessa e inedita realtà della scuola multiculturale. Le scuole italiane sono oggi frequentate da più di 230.000 figli di immigrati, di 189 diverse nazionalità, con una percentuale che sfiora il 3% dell’intera popolazione scolastica. Il Dossier sottolinea che mentre il numero degli immigrati si duplica in dieci anni, il raddoppio del numero degli figli degli immigrati nella scuola avviene in quattro anni. Se entrano 200.000 persone all’anno, nel 2018 le presenze scolastiche saranno superiori alle 700.000 unità, il 6% di quanti entrano in classe. Ne consegue che l’impostazione interculturale della didattica e dell’organizzazione dell’istruzione non è più un optional ma una scelta necessaria. Ed è a tale scelta che andrebbe collegata una corrispondente riconsiderazione del problema religioso e del modo di trattarlo nell’educazione dei giovani. Se la premessa è fondata, si comprende come il punto da mettere a fuoco non consista nello stabilire se nelle aule debba esserci o meno quel crocefisso (che una remota disposizione governativa classifica ancora tra gli «ordinari arredi scolastici») o se il mantenerlo o toglierlo rinforzi o vulneri le tradizioni culturali e l’identità nazionale. Occorre invece rendersi conto del fatto che il carico simbolico del crocefisso nella «scuola dell’intercultura» ha un significato diverso da quello che poteva avere o nella scuola confessionale o nella scuola temporalista o in quella funzionale a un regime autoritario. Da segno di egemonia religioso-culturale, in termini di potere, a segno di apertura, di rispetto, di condivisione, di carità nel senso evangelico del termine. È lo scarto che corre tra Lepanto e Assisi, tra la «cristianità armata» e la ricerca, nel dialogo delle culture, di una sintonia dei distinti nell’impegno di umanizzare la vita. Facendo leva, ad esempio per l’islam, sul riferimento alla comune discendenza da Abramo e quindi su una, pur parziale, conoscenza condivisa della Bibbia. Se questo è il vero problema, le dispute giudiziarie perdono di consistenza mentre fanno il loro corso; e vengono in primo piano le ragioni di una universale convergenza umana, nella quale le diverse matrici non si confondono ma si intrecciano nelle strutture e nella prassi di una nuova convivenza. In un simile circuito di dialogo proprio la figura del Cristo può affermare le ragioni della laicità, che è il contrario di ogni fondamentalismo, compendiate nella massima del «date a Cesare». Sapendo che il rifiuto della sovrapposizione tra sfera civile e sfera religiosa può avvenire oggi nella pratica di una democrazia inclusiva, vissuta come riconoscimento di valori. È un compito grandioso che interpella la responsabilità di tutti i soggetti coinvolti. Ma è opportuno aggiungere che proprio sui cristiani, in possesso di buoni titoli per interloquire, grava l’onere di compiere un primo passo. Con un corollario: e cioè che si rende ormai indispensabile un esplicito rifiuto della risacca di un “tradizionalismo” fuori tempo e fuori luogo che non può rimanere senza risposta, anche in ambito ecclesiale, specie quando anche in Parlamento aggredisce e deforma il Concilio Vaticano II e propone ai credenti (e alla politica) di annegare ogni speranza nella mischia di un indeterminato scontro delle religioni e delle etnie. Oltre l’integrazione strisciante Sono sotto gli occhi di tutti episodi e situazioni in cui l’integrazione funziona e produce effetti positivi in ogni direzione. I Fratellastri d’Italia, come li chiama il recente libro di Corrado Giustiniani (Laterza 2003) analizza e mette in bella copia ciò che i nostri centri d’ascolto constatano ogni giorno. A parte il genere... trasversale dei criminali, un popolo “altro” vive e lavora in mezzo a noi, spesso completando e spesso sostituendo le nostre funzioni. Con una crescente presenza di immigrati imprenditori, venuti su dal nulla che affrontano i rischi del mercato. E non mancano neppure, come rivela il libro citato, casi di immigrati che hanno voluto scrivere le loro storie nella nostra lingua, qualificandosi come veri “ambasciatori di culture”. O casi controcorrente come quello che si verifica nel Nord Est, un’area comunemente assegnata alla pratica della xenofobia ma dove, esattamente a Monfalcone, l’assessorato ai lavori pubblici del comune è retto da un ingegnere senegalese. Dalle constatazioni che precedono trae forza l’istanza di provvedere da subito a garantire agli immigrati, prima ancora del voto, le condizioni di agibilità civile indispensabili per una vita dignitosa; e quindi la copertura sanitaria, la praticabilità dell’istruzione, la tutela delle famiglie, l’accesso all’abitazione, il sostegno sociale nei casi di estremo bisogno; in una parola, tutto quel che rende sostanziale una cittadinanza che mediante il voto è riconosciuta in modo significativo ma soltanto formale. La segnalazione e l’apprezzamento del “movimento” in atto sul piano politico non copre tuttavia l’intero orizzonte delle questioni aperte o che si aprono in prospettiva. Più volte abbiamo segnalato ritardi e anomalie nell’accoglienza di chi chiede asilo, una materia per la quale l’Italia si distingue per il perdurare di una preoccupante carenza normativa specifica. Ed è giunto il momento di rilevare la paradossale situazione della legge sulla libertà religiosa, premessa ad ogni ordinato sviluppo dei rapporti con le diverse confessioni ormai presenti sul territorio, che risulta messa in quarantena dopo un iter caratterizzato da consensi pressoché generali. In un mondo di migranti Nel governo delle migrazioni si va sempre fuori misura quando si cerca di incidere con atti volontaristici, in genere a sfondo ideologico, su una realtà che viceversa si esprime come una dimensione vitale del divenire umano. Caritas Italiana e Migrantes nel presentare questa edizione del dossier 2003, ribadiscono di considerare le migrazioni contemporanee come un dato con cui convivere. E come un’opportunità da non sciupare. Non abbiamo preclusioni o pregiudizi etnico-razziali. Accettiamo tutte le misure, comprese le più sofisticate tecnologie, per combattere il traffico delle persone e le speculazioni sulla miseria. Lavoriamo perché siano percorse strade di giustizia e di sviluppo in questo mondo tanto globalizzato quanto frammentato in isole di egoismo. Rappresentiamo un punto di vista che si accredita non solo per l’ispirazione cristiana che ci anima ma anche per un esercizio sul campo che affronta ogni giorno la prova dei fatti e il giudizio di tutti. Sono questi i titoli che ci spingono a insistere affinché il capitolo dell’integrazione non sia frettolosamente chiuso, magari come prezzo da pagare a una improbabile ragion politica. Riteniamo infatti che solo nell’integrazione può essere messo a frutto il contributo delle culture originarie degli immigrati, senza imposizione di formule di assimilazione che distruggono le identità e deformano le convivenze. Ma sappiamo altresì che solo nell’integrazione si realizza una metamorfosi non superficiale e temporanea dei sopraggiunti da ospiti a nuovi cittadini; e che ciò determina il superamento di equivoci, indecisioni e paure che ancora percorrono la società e sono spesso alimentate senza motivo. In definitiva rispettando le culture di origine degli immigrati non si ostacola ma si facilita, in essi, la conoscenza e il rispetto per la cultura e le regole della nostra società. Se immigrazione diventerà sinonimo di coinvolgimento nei termini indicati, molte cose potranno cambiare. In meglio. Domenico Rosati |