Editoriale
 

Sono morti per la pace. Sono morti per la patria. È quello che si sentiva dire dalla gente intervistata al tigì, è quello che hanno detto alcuni alti prelati, fino a parlare dei militari italiani uccisi in Iraq come di «martiri della pace». È quello che ha detto il card. Ruini al funerale di stato nella basilica di S. Paolo: «Con questa messa ci rivolgiamo a Dio ... e gli affidiamo uno per uno questi nostri morti e le loro famiglie, ciascuno dei feriti, tutti gli italiani, militari e civili, che sono in Iraq e in altri Paesi per compiere una grande e nobile missione, e con loro questa nostra amata Patria, la pace nel mondo e il rispetto per la vita umana ... i nostri caduti ... hanno accettato di rischiare la vita per servire la nostra nazione e per portare nel mondo la pace». Ed è quello contro cui ha ribattuto, solo tra i vescovi, mons. Nogaro di Caserta: «Fenomeni come il terrorismo non si combattono con le armi. Bisogna fare attenzione a non esaltare il culto dei martiri e degli eroi della patria, strumentalizzando la morte di questi nostri giovani per legittimare guerre ingiuste».

Ruini con la sua omelia ha implicitamente sconfessato la prospettiva sulla guerra portata avanti in questi anni dal Papa, cancellando di fatto il ripudio assoluto dell’intervento in armi fatto proprio dalla chiesa. Il presidente della Cei doveva benedire i morti preferibilmente in una cerimonia religiosa, e non di stato, senza entrare nel merito della questione politica. Il mondo laico, da parte sua, ha riscoperto la funzione di supplenza della chiesa, ridotta ormai a religione civile, se non addirittura a cappellano dello stato.

Non abbiamo difficoltà a riconoscere come “martire” una figura come Annalena Tonelli, uccisa recentemente in Somalia. Invece la “beatificazione” di questi poveri militari italiani, «spinti alle missioni estere anche e spesso per portare a casa qualche soldo in più e vivere una vita con maggiore dignità» (Antonio Savino, direttore de «La rivista dell’Arma»), è molto ambigua. Su di loro c’è stata una vergognosa speculazione retorica patriottica. Faceva impressione sentire nominare nelle lunghe e tutte allineate dirette televisive così frequentemente la parola «patria», vedere per le strade sbandierare così tanti tricolori. La patria, nelle sue pretese, che accompagnano il suo valore, esige per definizione sacrifici umani. E le politiche li mettono in conto. Il governo ha mandato questi ragazzi, forse anche impreparati ad affrontare una guerra, sotto comando inglese, ad affiancare gli occupanti. Trattavano bene la popolazione, si dice. Se ne ricava, implicitamente, che non così fanno gli americani, che dunque meritano (?) gli attentati contro di loro...

Il fatto è che, nonostante le buone e sincere intenzioni personali che supponiamo nei militari, non è lavorare per la pace l’accodarsi, armati, a un esercito invasore; non è lavorare per la pace lo stare sotto il comando degli invasori in una terra militarmente occupata, appartenente a un popolo violentato da questa guerra. Una guerra che il governo Usa, come sappiamo fin troppo bene, ha voluto ostinatamente, contro la gran parte dell’opinione mondiale e delle chiese, ma con l’approvazione del governo italiano.

L’amministrazione Usa, in questa orribile vicenda, si dimostra incapace di pensare metodi costruttivi e rispettosi dei diritti e dei percorsi degli altri popoli, mentre pretende di imporre la propria interessata visione delle forme politiche, dei diritti e dei rapporti economici. Questa politica, che si ammanta dei diritti umani universali, danneggia proprio il valore universale della cultura dei diritti e dei doveri e della comune dignità umana. Il fatto che in Iraq ci fosse una dittatura non giustifica, evidentemente, lo scempio del paese che gli Usa e alleati hanno fatto o, come il governo italiano, approvato e fiancheggiato. I nostri soldati erano e sono anche involontariamente collaboratori di quello scempio.

Il giudizio morale e cristiano sulla loro azione sarà misericordioso, ma non può essere di esaltazione. Ciò sarebbe dare un avallo religioso all’inganno perpetrato dal governo italiano, a danno degli stessi militari inviati e sacrificati in un compito ingiusto. La ricostruzione materiale, sociale, civile in Iraq può oggi essere aiutata dalla comunità internazionale soltanto sotto l’egida della istituzione di pace che è l’Onu, e soltanto mediante rappresentanti civili di paesi che non abbiano partecipato né approvato la guerra. Come tutti possono vedere, questa guerra favorisce il terrorismo, perché gli somiglia nella sostanza violenta, e si differenzia soltanto per il fatto di venire dallo stato invece che da bande oscure. Ma lo stato non ha un maggior diritto dei banditi di fare violenza, perché il suo senso umano è quello di abolire – anche mediante l’uso della forza – la violenza pubblica. Solo la giustizia tra i popoli, e quindi la loro unità, potrebbe isolare e sconfiggere con mezzi giusti l’ingiustizia grande del terrorismo. Altrimenti i terroristi continueranno a utilizzare in modo interessato l’ingiustizia.

I più saggi consigli precedenti questa guerra, tra cui quelli molto chiari della nostra chiesa, prevedevano questa serie di sofferenze e tragedie del popolo irakeno, dei militari statunitensi, e ora anche italiani, e non possono oggi venire contraddetti per compiacere la retorica militare e governativa.

[ ]
 

[ Indice] [ Sommario ] [ Archivio ] [ Pagina principale ]