INTORNO AL LIBRO DI PANSA |
Il sangue dei vinti |
Il sangue dei vinti è una narrazione storica, in cui la vicenda individuale, “romanzesca”, si riduce a una fastidiosa finzione di dialogo tra l’autore e Livia, la bibliotecaria di Firenze. La sostanza del libro è l’elencazione di fatti di sangue svoltisi nel nord Italia nell’immediato dopoguerra. La storia si distingue dalla cronaca se chi la narra tende a un’interpretazione dei fatti, e ciò non accade nel libro di Pansa. Quanto ai fatti, si tratta veramente di avvenimenti sconosciuti ai più e finalmente portati alla luce infrangendo un tabù? Pansa è stato accusato di aver rivangato cose note in un momento inopportuno. Non ci pare un’obiezione consistente. La cognizione dei fatti è soggettiva, generazionale, e si è evoluta in questi cinquant’anni di fine secolo. Tra lo scoppio della guerra fredda e l’inizio del disgelo, la Resistenza fu posta sotto accusa, e non solo politicamente. Giovanni De Luna ha ricordato le 600 sentenze pronunciate in Piemonte contro uomini delle formazioni partigiane negli anni del dopoguerra. Parallelamente, già allora vi fu un primo “sdoganamento”: i rottami del fascismo vennero rapidamente riciclati in funzione anticomunista, dalla fallita operazione Sturzo (caldeggiata da Pio XII) del 1952 al governo Tambroni del 1960. I fascisti enfatizzarono le violenze del dopoguerra allo scopo di denigrare la Resistenza e si appropriarono dell’espressione «guerra civile», da loro intesa come guerra fratricida (come se potessero mai esistere guerre non fratricide). I fatti che ora appaiono come “rivelazioni” erano ben noti, per la semplice ragione che gli italiani li avevano vissuti direttamente. La storiografia antifascista non vi si soffermava, per non contribuire alla rivalutazione del fascismo. Venne il disgelo, e con esso il centrosinistra, che pose un chiaro limite morale verso l’estrema destra, ricacciata fuori dell’arco costituzionale. La Resistenza denigrata ritrovò il riconoscimento che le spettava, non solo nella storiografia ma, ben più importante per la formazione del sentire comune, nel cinema e nel giornalismo. Era inevitabile che si diffondesse una visione agiografica della Resistenza, che sorvolava sugli aspetti meno nobili, sulle degenerazioni, sulle esasperazioni. Così chi oggi ha meno di quarant’anni può sorprendersi per le “rivelazioni” su quanto accadde dopo la Liberazione. Tra denigrazione e agiografia, il «Saggio storico sulla moralità nella Resistenza» (questo il sottotitolo di Una guerra civile di Pavone del 1991) segna una svolta. Quando finisce una guerra tradizionale, i combattenti tornano a casa fieri di aver servito la loro patria, e magari si scambiano reciproci onori. Il 25 aprile non fu questo. Si chiudeva una lotta tra chi si era messo al servizio del nazifascismo, con gli orrori della dittatura, della guerra di conquista, dell’odio razziale, e quelli che, «decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo» (Piero Calamandrei), vi si erano opposti subendo le impiccagioni, le sevizie, le stragi di civili inermi. Non era una partita che si poteva chiudere in eleganza. Nel comprendere le motivazioni, Pansa non ci aiuta. Il suo è un elenco dove si accavallano atti di giustizia positiva (come l’esecuzione del federale di Torino, Solaro) insieme con gli eccessi criminali di quelli così descritti dal generale Trabucchi, capo del Cmrp: «Entrò nelle formazioni il fiotto della razzamaglia: avventurieri, disertori, profittatori ...» (la citazione è dello stesso Pansa). E infine, fatti di cronaca nera, che con l’antifascismo non avevano nulla in comune, e che la disarticolazione sociale prodotta dalla guerra rendeva facili, diffusi e incontrollabili. Se si evita l’interpretazione e ci si limita a contare i cadaveri, veramente si rischia l’ambiguità. «A conti fatti, 67 ostaggi uccisi dalla Wehrmacht e almeno settanta prigionieri repubblicani e tedeschi soppressi dai partigiani. Devo dire qualcosa di più? – domandò Livia». Così si conclude il racconto di quel che accadde a Grugliasco e Collegno il 30 aprile e il 1° maggio 1945. Sì, Livia (o meglio Giampaolo Pansa), dovevi dire qualcosa di più. Gianfranco Accattino |