NOTE A MARGINE
La domanda di giustizia

Questa non è una recensione del piccolo grande libro La domanda di giustizia (Einaudi), di Carlo Maria Martini e Gustavo Zagrebelsky. Sono soltanto note suggerite dalla lettura delle 50 pagine del secondo dei due Autori. Nulla di più di ciò che fa ogni lettore in ascolto attivo di pagine parlanti. Queste note stanno anche come autonome riflessioni, per quanto generate dalla densità e dalla profonda saggezza dello scritto di Zagrebelsky. Ecco un uomo, un magistrato, uno studioso, un pensatore, un cittadino che potrebbe molto opportunamente per l’Italia, oggi governata da una classe insensata, essere scelto a tempo debito come massimo magistrato e custode della nostra Repubblica, della sua migliore cultura civile e della sua Costituzione, ispirate e tese alla giustizia.

Diritti umani (p. 6) – Bisogna dire, purtroppo, che i diritti umani non sono divenuti patrimonio comune per merito delle chiese cristiane.

Fame e sete di giustizia (pp. 12-13) – La fame e sete di giustizia è il punto di partenza per capire qualcosa. Senza la speranza di giustizia «l’esistenza stessa è scossa dalle fondamenta». Questa speranza è «una condizione di esistenza», che viene a mancare non solo sotto l’oppressione, ma anche nelle materialistiche società opulente.

Rapporto tra libertà e giustizia (p. 14) – Questa pagina, centrata su un grande pensiero di Vittorio Foa, mi manda una illuminazione per me nuova sul rapporto tra libertà e giustizia. Sì, possiamo dire che si implicano a vicenda, che sono valori equivalenti, ma è un fatto decisivo che alla libertà si può – si deve talora – rinunciare per la giustizia, mentre non si può mai rinunciare alla giustizia per la libertà. C’è dunque una gerarchia tra i due valori, e la giustizia e la sua ricerca è superiore alla libertà e al suo godimento. Ovviamente, parliamo della libertà esteriore, perché quella interiore cresce e si afferma nel sacrificio per la giustizia: nessuno è libero e vivo come Cristo, che accetta di venire ucciso sulla croce come uno schiavo per fedeltà totale alla sua testimonianza e seminagione di vita giusta. Un abisso separa questa prospettiva dall’idea di libertà oggi vincente nella squallida politica italiana: la libertà economica, individuale, concorrenziale, separata dagli altri e dagli ideali; l’ultima delle libertà è follemente messa al di sopra di ogni libertà e di ogni giustizia.

Domanda di giustizia (p. 16) – La domanda di giustizia sorge dall’ingiustizia. Ma è vero anche il contrario: sentiamo che una cosa è ingiusta perché abbiamo già un senso della giustizia, non come concetto definito, ma come una sete che è criterio. La domanda di giustizia è una reazione attiva e creativa, non rassegnata, all’ingiustizia. Ma noi sentiamo che questa cosa è ingiusta perché abbiamo già una coscienza insopprimibile del diritto come dignità inviolabile della persona. Il grido, almeno dentro di sé, del bimbo discriminato o ingannato «Non è giusto!»; il morso nelle viscere che provoca al Samaritano come a noi, se non siamo traditori come il sacerdote e il levita, la visione del dolore e del tormento altrui; il grido della vittima, anche quando resta chiuso nel cuore, grido che neppure Cristo poté trattenere, «perché mi viene fatto del male?»; questi fatti indubitabili dimostrano in modo assoluto, per ogni essere rimasto umano, che lì c’è ingiustizia e deve esserci giustizia; che la giustizia preme e giudica il mondo.

Politica e giustizia (p. 17) – Politica e giustizia, intervento militare e fine umanitario. Qui c’è l’eco della innominata riscoperta gandhiana del nesso fini-mezzi. Il mezzo è già un risultato, non è uno strumento vuoto. Il mezzo è già il fine dell’azione, qualificata già dai mezzi ben prima che dalle intenzioni e dai risultati finali.

Innocenza (p. 18) – Nel mondo ingiusto, chi è innocente? Non è innocente chi, come noi privilegiati, si giova dell’ingiustizia pur senza averla provocata! Il nostro benessere ereditato e accresciuto non è senza colpa! Il nostro sviluppo umano è antropofago, è costruito sulle vittime del mondo. Si tratta dei delitti non impediti di Luigi Pintor in I luoghi del delitto. Che cosa possiamo fare? Più grave è la colpa nell’insensibilità e nell’omissione. L’inizio della salvezza sta nello spendere nel servizio le condizioni del privilegio.

Legalità (p. 20) – La modernità ha preteso di ridurre la giustizia al diritto, il diritto alla legge, e la legge alla sovrana volontà dello stato, senza differenza tra un principe assoluto e un’assemblea onnipotente. La giustizia è cambiata in legalità. Il rispetto della legge sembra rispetto della giustizia. Ma «la legalità, alle volte, ha poco o nulla a che fare con la giustizia».

Correggere la natura (p. 21) – Anche le leggi naturali, e le stesse leggi divine, possono essere contestate in nome della giustizia. La politica, come ha scritto Krippendorff in L’arte di non essere governati (v. il foglio n. 303), è non-realistica, perché corregge la natura e la storia. Abramo e Giobbe, e spesso la preghiera del salmista, richiamano Dio ai suoi obblighi di giustizia.

Legge giusta (p. 22) – «Sopra la legge posta c’è qualcosa di presupposto» che la rende o non la rende giusta. Come cercarlo e individuarlo? Lorenzo Milani ha dato un criterio: «La legge è giusta quando è la forza del debole, è ingiusta quando sanziona il sopruso del forte» (Lettera ai giudici in L’obbedienza non è più una virtù).

Soggezione del giudice alla legge (pp. 25-28) – La giustizia dei tribunali, se fosse, come si dice, pura e semplice soggezione del giudice alla legge, e solo alla legge, separerebbe il diritto dalla giustizia. Infatti, nel caso in cui fosse legge la violenza psichiatrica contro i dissidenti o biologica contro le minoranze, la legalità usurperebbe il trono della giustizia, l’applicazione della legge violerebbe la giustizia. Dove i giudici applicano leggi fatte apposta per legittimare l’arbitrio dei potenti – a questo si avvicina la situazione italiana – quello non è più stato di diritto, come non lo era il regime nazista, sebbene riconosciuto come tale dai giuristi, per primo Carl Schmitt, mentre era un vero “stato di delitto”. In realtà, nei tribunali la giustizia non è ridotta alla legge, perché l’interpretazione della legge è sempre evolutiva, specialmente nei casi nuovi e difficili, come la bioetica, eppure non è arbitraria, perché obbedisce al nesso tra la legge e il suo presupposto, tanto che il giudice può denunciare la legge che confligga con i principi costituzionali inviolabili. Dunque il giudice risponde anche ad una istanza di giustizia superiore alla legge.

Giustizia ricostruttiva (pp. 28-40) – Oltre alla classica distinzione tra giustizia distributiva e retributiva, Zagrebelsky non manca di registrare, nella recente vicenda sudafricana della Commissione Verità e Riconciliazione, l’emergere di una concezione antica e nuova, la giustizia ricostruttiva o riconciliativa. Nell’antico diritto ebraico, il ryb (disputa, litigio), a differenza del giudizio, puntava alla riconciliazione e alla pace, alla ricostruzione del rapporto ferito. Dostoevskij comprende che, se c’è ingiustizia nel mondo, l’offeso è anch’egli in qualche modo colpevole come l’offensore, sicché, più del giudizio, vale essere consapevoli che condividiamo la colpa. È ciò che fa Cristo, l’innocente, con l’umanità peccatrice, che non condanna, ed è questa la sola salvezza. Finalmente un grande giurista dedica acuta attenzione alla esemplare innovativa vicenda sudafricana, che il pensiero della pace studia e valorizza fin dall’inizio come indicazione che è possibile progressivamente ridurre la violenza legalizzata nella giurisdizione statale punitiva, la quale, sia pure con misura e oggettività, rende pena per delitto, cioè aggiunge male a male, dolore a dolore. Non sfugge a Zagrebelsky la civilissima idea di ubuntu, che caratterizza la giustizia tradizionale africana, riconciliativa, a confronto della giustizia europea, retributiva. È opportuno precisare che l’amnistia concessa dalla legge sudafricana a chi riconosce pienamente le sue responsabilità, anche se gravi, è amnistia personale, non generale, come avviene in altri casi dal significato inferiore e anche deteriore. «Pur non richiedendo il perdono individuale (...) questo tipo di giustizia comporta una generale disponibilità al perdono, in nome di qualcosa di più elevato del sentimento di vendetta, cioè in nome della concordia». «Il miracolo sudafricano, peraltro incompiuto (...) è qui: quella disponibilità si è manifestata, (...) ha impedito che l’ingiustizia producesse nuova ingiustizia». Dichiarando che «questa esperienza rappresenta un modello», l’Autore registra con cura una bibliografia internazionale su di essa, che mi viene utile per arricchire questo capitolo della mia bibliografia sulla Difesa senza guerra, la quale peraltro contiene ancora altri scritti sulla vicenda sudafricana.

Cercatori di giustizia (pp. 40-50) – Un punto d’arrivo per l’Autore è questo: «Giusto tra noi è chi cerca la giustizia». Non un’idea astratta, ma una ricerca, è la giustizia. Come la verità, come la pace, come l’amore: non possesso, ma processo, cammino, entrata. Eppure, il fatto che non si afferrino come oggetti (che sarebbe violarli e smarrirli), non significa che questi valori siano nulla, parole vuote, perché inquietano, sospingono, attirano, agiscono e fanno umano l’uomo, sempre di nuovo lo creano, e hanno titolo per giudicare le situazioni di loro assenza o negazione. In questa ricerca, credenti e non credenti sono «compagni, e non nemici», come parrebbe nel vecchio schema che fa i primi proprietari di certezze e i secondi di dubbi. Non occorre ipotizzare, per convivere in pace, che Dio non ci sia (Rusconi), il che per i credenti è una finzione. Basta sapere che, per loro, Dio non è più il deus ex machina, ma il Dio sofferente, che non tuona nel dogma trionfante, ma chiede di essere inteso nel sussurro, nella «voce di silenzio sottile», con cui si rivelò a Elia. La condizione umana è comune a credenti e non credenti. Il dubbio non è solo del laico e il credere in qualcosa non è solo del credente in Dio. Il dubbio non è l’indifferenza, la scepsi, l’atrofia etica, ma l’umiltà e l’apertura delle proprie convinzioni, ed è di ogni persona seria. Non crea problemi la fede come tale, ma la soggezione al dogma e l’applicarlo di forza alle incertezze terrene, il che nega anche la libertà cristiana. Evitando i due simmetrici pericoli, l’eccesso dogmatico e l’eccesso scettico, credenti e non credenti possono convergere nell’impegno e responsabilità della ricerca della giustizia.

Enrico Peyretti


 
 
[ Indice] [ Sommario] [ Archivio] [ Pagina principale ]