MEMORIA |
Alessandro Galante Garrone
La radicale incomprensione di Galante Garrone con i democristiani, cui accenna Ferrara, ad esempio, non è vera. Posso testimoniare che, ai tempi degli attacchi di Cossiga, Martinazzoli gli inviò una lettera di solidarietà, e tra ai due nacque un carteggio di stima, al quale Alessandro teneva. Al punto che il libriccino pubblicatogli da Diabasis, Piccoli discorsi sulla libertà, ebbe due ipotesi di lavoro, rimaste tali: la prima, di un dialogo a distanza tra i due sui temi della costituzione, della resistenza e della libertà; la seconda di una prefazione di Martinazzoli ai discorsi di Alessandro. «Non lo amavano i democristiani, non lo amavano i comunisti»! Ma gli uni derogavano spesso dalla loro doverosa “alterità” rispetto alle ragioni della politica e del mondo terreno, gli altri cercavano di far convivere le loro contraddizioni (comunismo, libertà, democrazia, mercato), con l’abilità estrema che solo Togliatti possedeva. Una sera a cena Marina Jarre, che porta tanta Europa nel sangue, indicava la mancanza di senso morale come la caratteristica tipica degli Italiani. Alessandro non era un politico. Era un maestro, di rigore morale e di virtù civili. Un uomo libero, difficile da asservire al potere, difficile da addomesticare. Da magistrato gabbò spesso, con le sottili arti del diritto e con molto coraggio, il fascismo prevaricatore. Da partigiano combatté nelle formazioni di “Giustizia e Libertà” e poi fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Da insegnante, educò intere generazioni al valore della libertà e al rispetto della legge. Alessandro era mite, di una dolce umanità un po’ malinconica, gli occhi chiari, azzurri, pieni di innocenza. Non fu mai truce. E gli vidi sempre, anche da vecchio – il periodo in cui lo conobbi e lo frequentai – un gioioso e festoso senso della vita che l’amicizia gli scuoteva dentro, quale che fosse la sua condizione, se fisicamente poteva incontrare e abbracciare un amico. Era anche “tosto”. Ha nutrito una concezione laica della politica e dello stato. Credo che non avrebbe voluto i crocefissi nei luoghi della vita pubblica. E nemmeno io, ritenendo che la fede in un Dio appeso con vergogna del mondo a una croce, per servizio e salvezza, debba esplodere per incontenibilità dei cuori, non per segno di ostentazione istituzionale di un mondano primato di potere. In ciò il nostro riconoscimento era reciproco. Chiedeva intransigenza morale nella fedeltà ai principi costituzionali, nella gestione della legge e nel fare politica, intesa come il più alto servizio civile reso agli altri. È facile supporlo nemico della teoria della doppia vita, praticata da molti, politici e no. Non è un buon lascito per i giovani? E, nella vita privata, l’attaccamento alla sua Miti, Maria Teresa, donna fiera e dolcissima, che suonava il piano da un vita per lui solo. In questo modesto suq degli scambi e degli affari che è oggi la vita politica italiana, con meno diritti e meno libertà, la sua forza era anche nella ricchezza che ti dava. Ogni incontro diventava per lui occasione per rimettere in fila proposte, progetti editoriali, percorsi, battaglie. La vita che dava, gli dava vita e forza, in una specie di rito festoso. Non fu comunista. Era un liberale, alla piemontese, segnato dalla tradizione valdese, e da Gobetti. Gli irriducibili al mercato della politica. Irriducibili e intransigenti sui principi fondativi: quelli della nostra costituzione e quelli della nostra coscienza. Recuperiamoli. Alessandro Scansani |