LETTERE |
Presidente Ciampi, non è viltà |
Nel 1944, a Torino, mio padre, capitano dei Carabinieri e monarchico, si era dato alla macchia facendo sparire fascicoli per le deportazioni in Germania. I repubblichini allora arrestarono mia madre e la incarcerarono alle Nuove. Ce la tennero un mese intero. Volevano sapere dove era suo marito e lei, che lo ignorava, faceva scena muta. Un giorno l’ufficiale tedesco che conduceva l’interrogatorio le disse: «Le donne italiane sono coraggiose. Sono gli uomini italiani che sono dei vigliacchi». Mia madre, che era una casalinga, era in ansia per i suoi bambini affidati ad estranei ed era ben poco combattiva di temperamento, si trovò a rispondere, beccandosi un gran ceffone: «Se gli uomini italiani sono così vigliacchi, perché arrestate le donne e non li andate a prendere?». Mio padre, che fuggiva di nascondiglio in nascondiglio, non era un vile, e bisognava dirlo, a quell’ufficiale tedesco, anche nel suo interesse. Perché tu sei più forte non puoi infangare il tuo nemico, infanghi te stesso e lo paghi: per prima cosa ti accechi e per seconda diminuisci il tuo buon diritto, se ne hai. Altro che vile. Quello stesso capitano dei Carabinieri due anni dopo, con coraggio che nessuno trovava, fece finire le uccisioni nel Triangolo della Morte. In onore suo e di mia madre, che allora potevano rimanerci e io adesso rischio soltanto male parole, mi sento di dover dire al presidente Ciampi, dopo il tragico attentato ai militari italiani in Irak: con quale obiettività lei ha definito “vile” un attacco che gli assalitori hanno deliberatamente pagato con la loro vita? Un attacco portato in pieno giorno, in quattro contro alcune centinaia, a una caserma di soldati ben armati e consapevoli del pericolo? Signor Presidente, lei è più vecchio di me e lo sa meglio di me: è con il riconoscere la verità e avere il coraggio di dirla che si costruisce qualcosa di buono. I nostri compatrioti sono morti e noi siamo in lutto. Non vogliamo che ne muoiano altri. Non vogliamo che l’Irak resti nella violenza e il mondo ne venga sempre più infettato. Affidiamoci allora alla verità, non abbandoniamola in nessuna circostanza: quei quattro assalitori erano estremamente coraggiosi e la loro azione è stata un pieno successo, ahimè, a nostro danno. Se lei per primo, il più saggio di noi, parla di “vile” attentato, dove andremo, con gli occhi chiusi, invece che ben aperti a cercare soluzioni, e perdendo, a causa dell’accusa infamante quanto immeritata al nemico, la superiorità morale che speriamo di avere? So che verrò travisato, pazienza. Potesse aiutarmi dirlo chiaro, non amo la “bella morte” che lugubremente cantavano le Brigate Nere sapendosi finiti, e di coraggiosi ce n’erano più che altrove, tra loro. Persino il cupio dissolvi di san Paolo non mi suona consentaneo («voglio dissolvermi ed essere con Cristo»). Il suicidio-omicidio dei kamikaze mi sembra umanamente a una voragine di distanza dal coraggio di Gandhi nell’opporsi senza violenza agli Inglesi e a qualunque ingiustizia, fino a quando, prevedibilmente, fu ucciso. Anche Rabin, come lui, è morto per mano di un fanatico della sua parte, e di sicuro lo metteva in conto. Il perdere la vita quando si vogliono far cambiare situazioni di dominio politico può essere abbastanza certo anche per un non suicida, è l’ottica che è tutta un’altra e infinitamente più morale. Ma per quanto sia un coraggio da svelenire dalla morte che ha insita e dallo sfruttamento della gioventù che denota (com’è che non aspira mai al Paradiso un ideologo quarantenne?), detto questo e non è poco, nell’attentato kamikaze c’è coraggio. «Addio mia bella addio / l’armata se ne va / se non partissi anch’io / sarebbe una viltà». La viltà è quella di chi non rischia per una causa in gioco affetti, salute, portafoglio, reputazione, qualcosa che gli costi: adesso piange i morti di Nassiriya e domani piangerà i prossimi, «Franza o Spagna, purché se magna». La viltà mia sarebbe ascoltare tante parole tutte uguali su questa tragedia e, poiché si vive più tranquilli a legare l’asino dove vuole il padrone, non fare come mia madre con quel Tedesco e tenere il mio giudizio per me. Sandro Vesce |