DAL FICO ALLA CENA (3) |
Un pasto, non un super-sacramento |
Ci eravamo lasciati la volta scorsa chiedendoci come fosse oggi possibile, nella scia di Gesù, interpretare e vivere la sacramentalità in modo non cultuale. Non bisogna quindi rimanere troppo impressionati da ciò che è avvenuto nei primi secoli cristiani. Nell’attesa della parusia, i discepoli e poi i convertiti hanno continuato a radunarsi per i pranzi fraterni, rammentando la comunità di mensa con il Maestro durante la sua vita terrena, nel ricordo dell’ultima cena e nell’attesa escatologica ad essa collegata, come pure nella memoria della morte e della risurrezione del Signore. Ma il ritardo della parusia richiese una nuova interpretazione dell’esperienza dei pasti fraterni di Gesù con i discepoli. Da memoriale dei pasti quotidiani e dell’ultima cena, l’agape comunitaria diventa una celebrazione cultuale in cui il Signore glorioso è presente. La presenza misteriosa del Signore nei pasti comunitari si rende sempre più concreta e alla fine si precisa e s’identifica nella realtà degli elementi del pane e del vino. In contatto poi con le comunità ellenistiche, l’agape si è convertita in una celebrazione iper-sacramentale, in un’azione cultuale che ha interpretato il corpo e il sangue di Cristo presenti, misteriosamente, nel pane e nel vino. Così lo intendono il quarto vangelo, alla fine del primo secolo (Gv 6,51b-58), e le lettere di Ignazio d’Antiochia nel secolo II (fin qui Tragan nelle sue lezioni milanesi; per quanto riguarda il sèguito cfr il bel testo di G.Theissen – A.Merz, Il Gesù storico, Un manuale, Biblioteca Biblica 25, Queriniana-Brescia 1999, 500-538). Rituali super-presenzialisti La comunità dei credenti, che non attende più la parusia ma si pensa come duratura attraverso i secoli, ha inteso ben presto i grandi eventi di Gesù come il nucleo della fede e come i gesti da cui dovevano scaturire il nuovo culto e gli iper-sacramenti cristiani (li chiamiamo così, iper-sacramenti, perché vogliamo dare un senso relativamente nuovo e positivo alla parola “sacramento”: cfr più sotto). Il cristianesimo primitivo, scartando l’aspetto escatologico centrale in Gesù, ha sviluppato un nuovo rituale: col battesimo ha trasformato un’abluzione, intesa per lo più (cfr il Battista) escatologicamente come salvaguardia dal giudizio finale, in uno specifico rito di iniziazione; e ha trasformato l’ultima cena da semplice pasto fraterno ad iper-sacramento con elevata interpretazione teologica. Ancora nella Didaché infatti la liturgia della cena non fa intravedere né un rapporto con la morte di Gesù, né un riferimento ad un ultimo banchetto di Gesù, sicché mancano i detti dell’istituzione e simili; inoltre di una presenza reale di Gesù negli elementi non si può cogliere alcunché, mentre è presupposta una sua presenza “causale”. Abbiamo infatti varie possibilità in una sequenza crescente sempre più presenzialista: una presenza attraverso la memoria, e via via una presenza sociale, causale, e reale in senso stretto. Nella presenza attraverso la memoria la divinità è presente (mentalmente) ai partecipanti, nello spirito (ad es. 1 Cor 11,25). Abbiamo poi una presenza sociale: grazie al banchetto la comunità radunata si identifica in maniera misteriosa con la divinità, diventando ad es. “corpo di Cristo” (1 Cor 10,16s). Si ha altresì una presenza causale quando agli elementi del banchetto viene conferito un carattere soprannaturale, di modo ché diventano “cibo spirituale” che media la salvezza (1 Cor 10,3s). Abbiamo inoltre una presenza reale in senso stretto: la divinità è presente negli elementi stessi, cosicché la sua sostanza sovraterrena viene consumata nella sostanza del banchetto, insieme ad essa e sotto di essa (Gv 6,51b-58). La cena, da semplice pasto comunitario “normale”, si è via via caricata di massicce interpretazioni teologiche sino a diventare un iper-sacramento nel senso dei “misteri”, con effetti di natura mistico-entusiastica affioranti dall’idea primitiva del cibarsi della divinità. La cena diventa una variante di una “teofagia” diffusa universalmente, di una fede primitiva nella possibilità di appropriarsi delle energie di una divinità mangiando e bevendo. Il suo significato è la comunione iper-sacramentale, vale a dire il fatto che i celebranti, mangiando il pane e bevendo il vino, assimilano il corpo e il sangue di Gesù; per essi il corpo terreno di Gesù è allo stesso tempo anche il corpo del Risorto. Proprio questo infatti sarebbe l’aspetto caratteristico dei culti misterici: in essi si tratta della comunione con una divinità morta e risorta,...come ben sappiamo dai misteri di Attis e Mitra (pure nel culto di Dioniso le baccanti ritengono di cibarsi della carne della divinità, anche se solo nell’estasi). In questo quadro la cena si sarebbe via via imparentata in modo sempre più stretto col banchetto misterico, che è una ripetuta azione cultuale separata dal pasto comune ed eseguita entro la cornice di una iniziazione, grazie a cui si può pervenire ad una comunione tra l’uomo e la divinità, ed all’uomo è dato di partecipare alla vita divina indistruttibile. Il cristianesimo, dandosi un volto religioso (la cosiddetta interpretazione religiosa del cristianesimo), ha cercato di sfondare nel mondo pagano-ellenistico, di inserirsi in tale koiné che aveva già assorbito anche elementi del lontano oriente: pure Budda digiuna ed è tentato da Satana nel deserto, ad es. di trasformare l’Himalaya in oro per i poveri, o di avere il dominio su tutta l’India contemplata dall’alto di un monte. Sempre Budda scende sulla montagna nella luce (come la trasfigurazione sul Tabor), con due personaggi, uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Anche la nascita/entrata di Mitra nel mondo è accompagnata dall’arrivo di una stella-meteora-cometa, e pure Mitra è adorato dai pastori ecc. Dai misteri all’ “espressione” sacramentale Nel quadro testé tracciato vorremmo ora cercare di intendere appunto escatologicamente tali sacramenti in una modalità non cultuale e non troppo presenzialista. Seguendo la linea del teologo K. Rahner, nel sacramento si deve esprimere “qualcosa”: dire “segno” è troppo debole, dire “simbolo” va bene se viene inteso in senso forte come “piena espressione di...qualcosa, pur distinguendosi da essa”. Sotto questo profilo Gesù è quindi sacramento-simbolo del Padre, poiché ne è la piena espressione pur distinguendosi da Lui. Nel sacramento perciò, e più in generale nella sacramentalità-simbolo, si deve esprimere “qualcosa”, e non tanto celebrare un rito sacrale pervaso di culto religioso. Sempre in generale si può sostenere che nei sacramenti-simboli si dovrebbe esprimere il nucleo, l’asse portante della fede cristiana, che, se proprio vogliamo cercare il pelo nell’uovo, non è esattamente Gesù stesso; stringendo all’osso, è invece il Regno di Dio proclamato e atteso da Gesù come prossimo, vicino e venturo, come “prossimità vicinante” salvifica e liberante. Relativamente poi ai singoli sacramenti, non è facile avere una visione non cultuale del battesimo, della cresima, dell’ordine e del sacramento degli infermi. Probabilmente va meglio con la penitenza e il perdono; ed è decisamente più facile pensare in modo non cultuale il sacramento del matrimonio (forse non è un caso che per quasi tutto il primo millennio della storia del cristianesimo non sia attestata alcuna celebrazione specifica del rito del matrimonio). Ma pensare l’eucarestia in modo non cultuale genera normalmente nelle persone delle difficoltà quasi insormontabili: per esempio concepirla e realizzarla come una cena “normale”. Ci pare infatti che l’eucarestia, vista come “semplice” pasto fraterno di indole escatologica, debba essere centrata su una vera convivialità, seguendo la prassi delle primissime comunità cristiane che univano l’eucarestia vera e propria ad un pasto in comune. Potremmo quindi avere un’unica assemblea (e non prima la celebrazione in chiesa e poi il pranzo-cena altrove) strutturata secondo una scansione in cui si alternano la conversazione e la degustazione normale con momenti di riflessione, letture, canti, e preghiere. Occorre altresì non esagerare col “rendimento di grazie”, che tendenzialmente favorisce una religione sacralizzante e omologante; in un pasto conviviale assolutamente desacralizzato c’è posto anche per la supplica che chiede “conto” a Dio, per l’invocazione accorata e quasi disperata dei salmi, nonché per la preghiera di protesta ben presente nell’A.T. Questo è il corpo per voi Forse Gesù ha detto soltanto: «Questo è il corpo per voi», intendendo con ciò: questo pane assume ora per voi la funzione del cibo sacrificale consumato nel tempio, prende il posto del corpo dell’animale offerto. E al momento del calice ha aggiunto: «Questo calice, che stiamo bevendo insieme (questo giro di calice) è il nuovo patto», un patto senza sacrificio, di pura condivisione senza vittime. Si tratterebbe quindi di un semplice pasto, che tuttavia decreta la fine di tutti i sacrifici, sia umani che animali. Esso non simboleggia e non esprime più il dato di fatto disumano che la vita vive a costo di altra vita umana, bensì la promessa che la vita è possibile attraverso la condivisione degli alimenti vitali, attraverso il mangiare e il bere insieme. Il sacramento-simbolo dà appunto espressione alla trasformazione dell’essere umano da essere vivente “asociale”, che vive a prezzo di altre vite, in un essere “collaborante” che condivide e dona nella solidarietà e nella gratuità. A ciò si aggiunge una particolare tensione: cioè il fatto che il battesimo e la cena siano sorti in una situazione di estremo accorciamento del tempo: l’intervento definitivo di Dio era molto vicino. Paolo si è sbagliato (1 Tess.4,15-18) nel pensare che tale intervento fosse la parusia a brevissima scadenza («non tutti certo moriremo...» 1 Cor.15,51), in cui molti saranno rapiti in cielo in una vita sovrastorica senza dover morire. Ma per Gesù il nuovo “eone” sarebbe stato sovrastorico? O forse l’intervento definitivo di Dio, pur rimanendo tale, lasciava aperta la strada ad una prosecuzione della storia umana? Ciò è forse possibile; comunque sia, noi dobbiamo vivere l’eskaton in forma corretta: una possibilità è quella di accorciare simbolicamente il tempo vivendo ogni giorno come se fosse il primo e nel contempo come se fosse l’ultimo. Il che significa “esprimere” (questo per me vuol dire “sacramento”) nel pasto eucaristico tutta la freschezza, l’entusiasmo, la novità dell’Evangelo e della fede in quanto “gioia per Dio” (tipica del primo giorno o della prima volta) e nel contempo tutta l’estrema urgenza dell’avvento del Regno di pace e di giustizia (tipica dell’ultimo giorno nel senso che il tempo stringe): l’escatologia oggi, dopo gli eterni dibattiti su quella realizzata e su quella conseguente, può significare che la cosa è urgentissima ed è una questione di vita o di morte (demitizzando completamente la fine del mondo classica). Naturalmente le forme moderne di tale espressione sacramentale sono tutte da inventare: l’importante è che il pasto conviviale sia assolutamente desacralizzato, e non centrato su una venerazione del sacro, su una adorazione del divino come potenza dominante sul tutto, su una concezione sia sovrannaturalistica che super-presenzialista del mistero della realtà. Mauro Pedrazzoli |