MITEZZA, LA PIÙ (IM)POLITICA DELLE VIRTÙ
«Beati i miti», cioè i nonviolenti


«Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Matteo 5,5, che riecheggia il salmo 37,11, e sarà ripreso nel Corano 21,105). Questa beatitudine sembra ripetere la prima, dei «poveri nel loro cuore», perché i due termini greci originali sono quasi sinonimi. Eppure, c’è una sfumatura: essere poveri col cuore è un atteggiamento di fronte a Dio; essere miti è un comportamento verso il prossimo. Se la povertà è una sofferenza, la mitezza è una sopportazione attiva, un patire con forza – che non è un subire – l’avversione altrui.

Chi sono i miti? Gente umile e inoffensiva (Ortensio da Spinetoli). Quelli che non si adoprano per affermarsi e conquistare spazio (Schmid). I mansueti, che non opprimono e non sfruttano, fiduciosi nella volontà di Dio (Trilling). Gli oppressi che sopportano con serenità (Prete). Quelli che non fanno uso della forza (Cuminetti). Alberto Maggi preferisce intendere l’aggettivo riferito allo stato sociologico più che alla qualità morale della persona, e traduce: diseredati, espropriati, perché trova che questo significato spiega meglio la seconda parte della frase di Gesù. Ma egli trae questa interpretazione soprattutto dal salmo 37,11, mentre gli altri luoghi in cui Matteo usa questo aggettivo (11,29; 21,5; vedi oltre) presentano piuttosto il significato morale personale.

Giovanni Paolo II, il 30 novembre 2003, prima domenica di avvento, ha detto: «Rinnovo il mio appello ai responsabili delle grandi religioni: uniamo le forze nel predicare la non-violenza, il perdono e la riconciliazione! “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Matteo 5,5)». In queste parole, miti sono i nonviolenti, che sanno perdonare e lavorare per la riconciliazione.

I miti sembrano dunque preferibilmente da intendere come i mansueti e pazienti, non passivi, ma interiormente forti, i quali, prima di ogni altra ricompensa, hanno – come suggerisce Luca 21,19 – il possesso di sé, il potere su di sé (Durand). Questo è il potere più prezioso e importante, il più difficile da conquistare e da conservare. I miti sono «quelli che non sono violenti», propone la traduzione interconfessionale. Gesù stesso, che incarna le beatitudini, si presenta «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29) e realizza la profezia di un re mite, che viene sopra un’umile asina (Matteo 21,5). Tutto il contrario dei re bellicosi e conquistatori.

«Guai ai miti»

In un fine saggio del 1993, Elogio della mitezza (ultima edizione Nuova Pratiche editrice, 1998), Norberto Bobbio analizza il significato di questa virtù. Riferisco qualche sua espressione: «Il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé». «La mitezza – dice Bobbio citando Carlo Mazzantini – è l’unica suprema “potenza” (...) che consiste “nel lasciar essere l’altro quello che è”». È il contrario della protervia e della prepotenza. Il mite «non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere». Ma la mitezza non è remissività: mentre il remissivo «rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione», il mite invece «rifiuta la distruttiva gara della vita» per un profondo «distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più», per mancanza di quella vanagloria che spinge gli uomini nella guerra di tutti contro tutti, «per una totale assenza della puntigliosità (...) che perpetua le liti anche per un nonnulla». Il mite non è neppure cedevole, come chi ha accettato «la regola di un gioco in cui alla fine c’è uno che vince e uno che perde». «Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità». Ecco quel «potere su di sé» di cui abbiamo già sentito. Continua Bobbio più oltre: «Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore». Egli «non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata». «Amo le persone miti (...) perché sono quelle che rendono più abitabile quasta “aiuola”». La mitezza è «una scelta metafisica, perché affonda le radici in una concezione del mondo che non saprei altrimenti giustificare». Ma oggi è anche «una scelta storica: consideratela come una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere». Bobbio quindi conclude: «Identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia». Però, nel pessimismo cui lo porta la sua coscienza morale confrontata con la realtà, prosegue subito: «Virtù non politica, dunque, la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato dagli odii di grandi (e piccoli) potenti, l’antitesi della politica». Tanto che sopra aveva scritto, rovesciando audacemente la beatitudine che stiamo ascoltando: «Guai ai miti: non sarà dato loro il regno della Terra». Poiché, diceva, «la mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù».

Ho creduto di dover discutere due volte questa conclusione di Bobbio (il foglio n. 217, febbraio 1995; n. 251, settembre 1998), obiettando che 1) la mitezza (come dice egli stesso) è virtù eminentemente sociale, necessaria alla vita della società; 2) la politica è organizzazione della convivenza tra le persone umane e si realizza nella maggior riduzione possibile della violenza, perciò appunto nella mitezza. Se si pone la mitezza fuori dalla politica, si abbandona la politica alla violenza. Certo, Bobbio parla della politica reale e constata tristemente che non è quella ideale. Dà un giudizio di fatto, non di valore. Ma proprio per questo bisognerebbe, misurando i fatti sui valori, riproporre sempre la mitezza, ovvero la nonviolenza, la pace, come essenza della politica umana. Quando la politica non è pace, anche se è prevalente, non è buona e vera politica, come un cibo avvelenato non è un cibo. Non ignoro che la politica non può, senza provocare seri danni, pretendere di attuare le massime esigenze etiche, ma nemmeno può prescindere dalla tensione al miglioramento umano, sotto pena di ridursi a contesa bruta di forze fisiche, non umane. Se la politica non è (anche) etica, diventa pura meccanica.

Ereditare la terra

Non è evasivo ascoltare una riflessione morale della cultura laica più seria e moralmente sensibile, a proposito di questo annuncio evangelico. Quale promessa c’è per i miti, per i nonviolenti? Bobbio dice tristemente: «Guai a loro: non sarà dato loro il regno della Terra». L’evangelo di Matteo dice: «Beati loro, perché erediteranno la terra».

Nel linguaggio e nel contesto evangelico, la terra significa la terra promessa, Canaan, conquistata da Israele (ma pare, secondo gli ultimi studi, molto meno violentemente di quanto abbia poi narrato l’epopea nazionale israelitica, per apparire simile ad altri popoli potenti) al termine dell’uscita (esodo) dalla servitù in Egitto. Però (vedi anche la beatitudine dei poveri e quella dei perseguitati), la parola «terra» significa ormai il regno dei cieli, ovvero il nuovo modo di vivere, secondo lo Spirito di Dio, che Gesù annuncia e inaugura. Questa spiritualizzazione non è di Matteo, ma si riscontra già nell’ebraismo in epoca anteriore a Gesù. Eppure, il fatto che qui si dica «terra» e non «regno dei cieli» suggerisce che la promessa ai miti è anche per questo mondo, e non solo per un altro.

Il verbo greco reso con «erediteranno» la terra può essere tradotto anche con «possederanno». Però, in questo richiamo alla terra promessa di Israele, mi sembra di vedere una chiara e importante differenza: ai miti è data, nell’evangelo di Gesù, una nuova e diversa promessa. A differenza della conquista violenta (o vantata tale) fatta da Israele sotto la guida militare di Giosuè, con lo sterminio atroce delle popolazioni che abitavano quelle regioni, con l’impossessarsi del frutto del loro lavoro, con una violenza che Israele, nel raccontare la propria storia, volle intendere come voluta e comandata da Dio stesso, ora, al contrario, la terra sarà data in eredità a chi è mite, a chi ha la forza giusta e costruttiva della nonviolenza attiva, che combatte l’ingiustizia senza commettere altra ingiustizia, ma rispondendo ad ogni male distruttivo con un bene ricostruttivo.

Questo «ereditare» non può essere, evangelicamente, avere una parte (come il verbo greco permette di intendere) nella spartizione della terra altrui che avvenne dopo la conquista militare della Palestina; ora la terra, che è sempre di Dio (Israele lo sapeva bene) deve essere vissuta come un dono condiviso e amministrato nella giustizia e nella fraternità. Non la conquista violenta sarà premiata ora che, annuncia l’evangelo, la storia umana può ricevere una luce di maggiore verità, ma la prassi giusta, libera dalla violenza.

Gesù, pur appartenendo pienamente al suo popolo e vivendo da ebreo su quella terra, non fa mai (salvo mio errore) alcun richiamo al diritto divino di conquista della terra d’Israele, che era nella sostanza dell’epopea nazionale (già corretta e affinata dai profeti).

Tutta la terra è un dono (eredità) di Dio ai popoli, da abitare senza violenza, in mitezza, in pace e ospitalità reciproca. Questo è l’unico modo per possederla con sicurezza e frutto, nella pace. Il violento non possiede davvero la terra, perché la sua minaccia ritorna su di lui e gli nega la sicurezza. Noi abbiamo imparato nei decenni della guerra fredda e ora nelle tristissime guerre del mondo monopolare, che la sicurezza o è reciproca o non c’è. Io non sono sicuro se non lo sei anche tu, mio vicino. È per questo che soltanto i miti «possiedono» la terra.

Noi, con un allargamento di significato possiamo anche intendere: i miti non solo possono «ereditare» la terra, starvi sicuri senza far violenza, ma sono i soli in grado di trasmettere a loro volta in eredità la terra ricevuta. Si dice che noi siamo debitori ai nostri figli e ai posteri della terra che abitiamo. Saremo in grado di consegnarla ad essi solo se la abiteremo senza violentarla, senza saccheggiarla né deturparla, vivendo in alleanza con essa e mitezza.

Questa beatitudine interpreta e ci indica un «segno dei tempi» dato alla nostra epoca: il Novecento è stato il secolo più violento della storia, ma è stato pure quello che ha visto i maggiori successi della cultura e delle lotte nonviolente.

La beatitudine dei nonviolenti non va isolata dalle altre e dall’intero messaggio evangelico. Va connessa con quella dei poveri nel cuore, dei perseguitati, e con tutte le altre. Va compresa nella luce del vangelo della croce e della pasqua, della morte oscura, violenta e ingiusta affrontata dal Giusto per amore, illuminata e vinta dalla forza sempre vivificante di Dio. Ha un significato intensamente spirituale, e anche chiaramente politico, riguardante cioè la vita giusta nella comunità umana. L’interpretazione sociologica che abbiamo visto all’inizio proposta da Maggi, ha una sua bella verità: la politica, come gestione della terra umana, cura del bene comune, che si riassume nella pace, sarà affidata ai mansueti, ai nonviolenti attivi, che oggi sono diseredati ed emarginati: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». È plausibile questa lettura: la mitezza, la nonviolenza, è annunciata dal vangelo di Gesù non come la più impolitica, ma come la più politica delle virtù.

Enrico Peyretti


 
 
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