PER UN DIBATTITO TEOLOGICO
Dio?!  Parliamone da vivo
Dopo decenni di oblio, il discorso su Dio ha ripreso vigore, anche se spesso in chiave apologetica; quasi i teologi, scossi dalle tesi della « morte di Dio», sentissero il bisogno di enfatizzarne i meriti, «parlandone – per dirla coi nostri vecchi – da morto». Chi volesse sentirne parlare «da vivo», non per difendere, cioè, la memoria di un trapassato, ma per misurarsi con la problematica presenza di un vivente, può trovare aiuto negli ultimi numeri di «Testimonianze» (2003, n. 3) e di «Esodo» (2003, n. 3), da cui è tratto l’articolo che sintetizziamo e proponiamo alla discussione.

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Forse

«Piano, piano, sotto voce».

La teologia della protesta non può che esprimersi a mezzo tono. Essa non ha verità da difendere, né misteri da custodire, ma solo domande da articolare: «Perchè l’essere invece del nulla, se l’annichilimento nella morte è il suo destino?»; «Perchè il Dio della promessa e dell’alleanza tace di fronte al vanificarsi dell’una e allo svuotarsi dell’altra?».

C’è stato un tempo in cui al rifiuto della dottrina metafisica dell’onnipotente giustizia di Dio si risponderva con l’invito al silenzio e alla pazienza. Oggi, che la gravità dei genocidi impuniti è esplosa in tutta la sua evidenza, la pazienza non è più una virtù e il silenzio suona rinuncia.

«Se l’uomo tace, il dolore non ha voce sulla terra; ma se tace Dio è il male che rischia di non essere più riconosciuto nella storia»: sta scritto su un foglietto, appeso tra mille altri dai visitatori all’albero d’olivo che chiude la mostra di Marc Ash sui campi di sterminio, che gira l’Europa.

La apre un rettangolo grigio che contiene un quadrato fatto con le divise a righe del lager, circondato dai triangoli colorati dei diversi tipi di internati. Nel cuore di questo quadrato un cerchio di filo spinato evidenzia l’interrogativo «Dieu?». L’interrogativo «uomo?», assente nel quadro, gli sta di fronte in colui che guarda e sa che l’eccesso del male provoca alla dupplice domanda: «Dov’è Dio?» (E. Wiesel), «Dov’è l’uomo?» (P. Levi). Dupplicità inevadibile per il credente e per il non credente, che sul male s’interroghino e sulla comune fragilità dell’uomo e di Dio.

Può dire il credente: «Poichè Dio esiste, il male è pura negatività che possiamo considerare già vinta»? Può ribattere il non credente: «La presenza del male espunge Dio dall’orizzonte stesso delle possibilità»? Non devono piuttosto ambedue riconoscere che il male, nella forma di sofferenza inutile e in quella di violenza invendicata, proprio mentre rende problematico Dio, anche mantiene aperto per tutti l’interrogativo sulla Sua presenza? Non dovrà confessare il credente: «Benchè ci sia il male, forse Dio c’è, anche se non so come e se potrà salvarci»? Non dovrà riconoscere il non credente: «Visto che c’è il male, forse non c’è Dio, anche se mi è difficile capire come l’uomo di suo possa liberarsi dalle sofferenze mortali, subite e inflitte, o anche solo portarne il peso»?

«Forse»: parola chiave della teologia, se la teologia sapesse sempre quel che dice (P. De Benedetti, Quale Dio?, Brescia 1996, p. 66 e A. Neher, L’esilio della parola, Casale, 1983, p. 246).

Agli Inferi

«Piano, piano, sotto voce, magari con ironia».

Il più bell’elogio del pensiero tragico, che è poi il pensiero che nel mondo classico affronta il problema della vita umana in relazione con quello della giustizia divina e della pervasività del dolore e della morte, è la commedia di Aristofane Le rane. Ci racconta il viaggio agli Inferi di Dioniso, travestito da Ercole, per riportare in Atene uno dei grandi tragediografi del passato, così che la città si salvi dalla decadenza morale e dalla corruzione. Solo chi sa mettere in scena l’uomo, alla prese con gli imperativi della legge divina e con la minaccia della morte, può farlo. Dopo un buffo duello poetico, basato sulla pesa dei versi, il prescelto sarà Eschilo: il più fiducioso nella giustizia di Zeus, ma anche il più generoso nel caricare le sue opere di «morti su morti». E la commedia termina col coro che si rallegra ed esulta: «Che bella cosa, non più con Socrate / starsene seduti a cianciare, / disprezzando le arti / e trascurando del tutto / l’essenza della tragedia».

Potessimo anche noi, travestiti da Isaia, salire ai cieli per ricondurre in terra qualche grande voce tragica del nostro biblico retaggio. Amos, innanzitutto, che riempie di morti la città e invita i sopravvissuti a «non invocare il nome del Signore» per non ridestare la sua ira (6,10). E poi Abacuc, che ha il coraggio di esclamare: «Fino a quando Signore griderò a te: “Violenza!”, senza che tu venga in aiuto?» (1,2-3). Quindi Giobbe, il ribelle per eccellenza, che mette in scena tutta l’infelicità del sofferente e la dignità dell’essere mortale e sbugiarda i difensori di Dio. Gesù, infine, che dalla croce denuncia irrimediabile l’abbandono di Dio (Mc 15,34).

Non possiamo salire al cielo, ma possiamo attingere all’inferno, a quelle pagine della shoà che ci testimoniano come l’essere abbandonati da Dio, che gli infernologi dicono vera causa della condizione dei dannati, si realizza in terra ogni giorno, per le vittime innocenti della storia.

«Ad Auschwitz non siamo diventati più saggi e neanche più profondi o migliori, più umani, più maturi moralmente ... Dal Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo prima che riprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà .... Chi ha subito la tortura non può più sentire suo il mondo ... La sua fiducia, incrinata dalla prima percossa, crolla per sempre con la tortura e non può più rinascere. Nel torturato si accumula lo sgomento di aver vissuto i propri simili come avversari. Da questa posizione nessuno può scrutare verso un mondo in cui regni il principio speranza» (J. Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino 1987, p. 54 e p. 82).

Testa a testa

«Piano, piano, sotto voce, magari con ironia tragica,
ma con fermezza
».

Ciò che Amery dice di Auschwitz vale per tutti i genocidi della storia e vale per ogni esperienza di dolore, che, mentre coinvolge l’uomo fino alle midolla, coinvolge anche Dio.

Il teologo legge, impara e rilancia: «La sofferenza non toglie solo la gioia di vivere. Essa destabilizza la coscienza credente. La sua provocazione apre una ferita insanabile nell’adesione istintiva all’essere come bene ... La confusa percezione della gratuità del proprio essere venuto al mondo assume la tragica connotazione di una casualità priva di senso, che espone indifesi al gioco oscuro di potenze minacciose». Il che genera coscienza e protesta: coscienza di non essere in grado di difendersi dal male e dalla morte e ribellione contro l’istanza trascendente, che si è presentata e promossa come capace di farlo (P. A. Sequeri, Il Dio affidabile, Brescia 1996, pp. 410-12).

«Sotto questo profilo l’eccessivo alleggerimento del tragico, operato dalla filosofia e dalla teologia moderna, appare anche come una banalizzazione dell’esistenza e come estetizzazione della religione. V’è, infatti, una serietà dell’esistere che è del tutto omologa con la capacità di attraversare il tragico, perchè in esso abita l’uomo. E certo, per il cristianesimo, anche Dio» (Sequeri, op. cit., p. 427).

Ancora l’uomo e ancora Dio messi testa a testa dal dolore e dal male, perchè confrontandosi a partire da questa tragica esperienza, che li divide e li accomuna, passino dal «sentito dire» al «faccia a faccia» del confronto diretto, in un processo libero da mediatori e da avvocati di parte.

Del resto è Dio il primo a scegliere il processo come luogo simbolico e forma dialogica di confronto sul rispetto dell’alleanza. Il Deuteronomio lo stabilisce come clausola conclusiva della Torah (Dt 28) e i profeti lo ricordano continuamente: se e quando deroga ai suoi obblighi, l’uomo deve essere processato. Ma possiamo fermarci qui? Possiamo fermarci alla denuncia delle colpe dell’uomo o non dobbiamo cominciare a chiederci se anche Dio non debba rendere conto delle sofferenze dei giusti e degli innocenti e dell’assenza per loro del bene da Lui promesso?

Faccia a faccia

Può Dio giustificare il muto ritrarsi della sua presenza salvifica dal mondo, col «disgusto per i delitti dell’uomo»? Perchè mai le vittime di tali delitti dovrebbero portare il peso, oltre che delle ingiustizie subite, anche dello sdegno di Dio contro i loro aguzzini? Dio non ha imparato nulla da Abramo, quando questi tentò di convincerlo a non coinvolgere gli innocenti nella punizione dei colpevoli (Gn 18,16-33)? Non gli è mai capitato di leggere il Processo di Shamgorod, dove solo Satana ha il coraggio di difenderlo dall’accusa di favorire gli assassini dei suoi fedeli (E. Wiesel)? Non gli è mai giunto all’orecchio il grido che dai Gulag e dai Lager saliva a Lui; a Lui che da giovane riusciva a sentire persino il lamento inespresso degli schiavi idolatri d’Egitto (Es 3,7)?

«Non c’è chi sia come te tra i silenziosi, muto e senza parola verso i persecutori!»: gli grida J. bar Shalom, durante i pogrom del 1147 in Renania (cfr M. Martini, Chi è come te tra i muti?, Milano 1993, p. 19). Nel processo, faccia a faccia, convocato da Dio contro di lui, l’uomo ha ascoltato e ha confessato la sua colpa e la sua debolezza. Oggi nel processo, faccia a faccia, promosso a carico di Dio dall’uomo, è ora che Dio assuma le sue responsabilità e riveli la sua debolezza. Altrimenti la sua muta abulia lo farà apparire come uno di quegli idoli che, in Suo nome, profeti e sapienti irridono proprio per la loro inerzia e il loro mutismo (Is 42,22-29; Sal 115,4-9).

Certo si tratta di «faccia a faccia» terreni e enigmatici, che solo da lontano evocano la trasparenza cordiale del «faccia a faccia» ultimo (1Cor 13, 12). Ma sono «faccia a faccia» necessari, se è vero che il patto è reciproco, non nasconde clausole segrete, «non sta nè in cielo, nè al di là del mare», ma qui a portata di mano e qui da subito impegna all’agire (Dt 30,11-14).

Forse come cristiano sarei tenuto ad osservare che la risposta di Dio è già stata data col Crocefisso-Risorto e che l’uomo di fede potrebbe risonoscersi nel centurione che confessa Gesù «Figlio di Dio», «avendolo visto morire in quel modo» (Mc 15,39). Dovrei; ma mi trattiene la memoria delle stragi perpetrate e delle guerre benedette in suo nome e nel suo segno. Vorrei; ma l’audacia del pensiero vacilla alla constatazione che, dopo duemila anni di attesa, neppure più i teologi osano parlare di resurrezione dei morti e di apocalittico riscatto dei sofferenti e dei vinti.

Allora, piano piano, sotto voce, magari con tragica ironia, ma con la dovuta umile fermezza, mi unisco a Caproni e Lo prego:

Dio di volontà,
Dio d’onnipotenza, cerca
(sfòrzati!), a furia d’insistere,
– almeno – d’esistere.

Aldo Bodrato



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