Editoriale
 

A Torino la ridistribuzione degli spazi urbani, resa possibile dall’interramento della ferrovia e dal trasferimento di alcune industrie, favorisce lo spostamento di uffici pubblici dal centro alle periferie. Non è uno scandalo se anche la Curia, oggi costretta in spazi angusti, li segue. Dobbiamo ringraziare don Carlo Carlevaris per avere aperto e tenuto vivo il dibattito su questo progetto diocesano di trasferire la Curia, con sale di rappresentanza e chiesa monumentale del «Santo volto» annesse, nel grande vuoto della «Spina tre» a Torino nord (cfr «La voce del popolo» del 7 dicembre). Senza i suoi interventi pochi in diocesi ne saprebbero qualcosa. Anche così le informazioni sono state fino a ieri scarsissime, tanto che ben si capisce perché, invece di precedere la decisione, il dibattito la segue.

L’intenzione del cardinale Poletto di realizzare questa diversa collocazione del centro diocesano in forme architettoniche simbolicamente evidenti e socialmente efficaci, è comprensibile. Stupisce che la creazione degli strumenti e dei simboli preceda la maturazione della nuova coscienza identitaria di chiesa e la formazione della realtà sociale e spirituale che per loro mezzo dovrebbe esprimersi. Sconcerta che si pensi di costruire una struttura, che indebiterà la diocesi per anni (si parla di 50 miliardi) e ne assorbirà per generazioni risorse materiali e umane, sulla base della decisione, benintenzionata ma volontaristica, del vescovo e non come risposta alle dinamiche di crescita e di sviluppo della comunità.

È, infatti, a tutti chiaro che il problema della nuova presenza spirituale e sociale della chiesa e dei suoi futuri orizzonti pastorali non si pone in termini di semplice continuità col passato. Ma si presenta come complessa e urgente necessità di riforma e sta sotto il segno di due decisivi processi di autocoscienza. Per un verso l’impegno della parte più viva e attiva della chiesa non si alimenta più essenzialmente alle forme cetechetiche e dogmatiche della dottrina e alla pratica sacramentale e liturgica tradizionale; ma si ispira alla fonte stessa della Parola, alla lettura e alla predicazione biblica, al vangelo e alla pastorale dell’annuncio, all’etica della carità e della condivisione. Per un altro, la stessa Cei ha preso atto che il tempo della cristianità trionfante è tramontato e che la cristianità addomesticata dei Concordati è al lumicino. Il numero dei fedeli è sceso al di sotto del limite critico della maggioranza relativa (20-30%) e si assottiglia sempre più.

Il rischio è, allora, che, nell’incapacità di dare un’adeguata risposta alle sfide della modernità, si cada nel «mal del mattone», in quell’attivismo edilizio che già ha portato la nostra chiesa a dare sfogo alla propria impotenza costruendo luoghi di culto e seminari sempre più grandi. Nell’illusione di colmare così il vuoto dei fedeli e il calo delle vocazioni si finisce coll’edificare cattedrali che favoriscono, anziché contrastare, la desertificazione spirituale dei nostri giorni.

Nel caso specifico, il centro religioso del «Santo volto» può avere un senso, se non viene pensato come semplice potenziamento e rilancio della pastorale degli ultimi cinquant’anni, ma come sbocco ed esito di una pastorale nuova, interamente ispirata alle beatitudini evangeliche e orientata all’accoglienza del povero, dell’ammalato e dello straniero. Sono questi gli «uomini dei dolori» che custodiscono e attualizzano la presenza del Signore e della sua figura tra noi.

Come ieri «solo chi operava a difesa degli ebrei perseguitati, aveva il diritto di cantare il Te Deum» (D. Bonhoeffer), così oggi solo chi lavora per la pace e la giustizia e si oppone ai disegni di sfruttamento dei diseredati del mondo, ha diritto di render culto al Crocefisso.

La chiesa che è in Torino può, dunque, avere bisogno di strutture che favoriscono l’efficacia della sua presenza e le garantiscano visibilità sociale, solo se sui temi dell’equità internazionale, del riconoscimento e della valorizzazione degli immigrati, della loro ricchezza umana, culturale e religiosa, è disposta a rendersi sempre più autonoma dal potere civile e a contrapporsi a esso e all’opinione comune, quando assumono posizioni più o meno xenofobe e neo-coloniali.

Per dirla coi profeti: solo se noi cristiani intendiamo servirci del cemento del nuovo complesso religioso per «operare il bene e non il male», per onorare Dio con la pratica della giustizia e della misericordia e non con la vana moltiplicazione del culto, dei simboli e degli spazi religiosi, il nuovo tempio non sarà una controtestimonianza, ma un’occasione d’incontro con Lui.

Vogliamo sperare che la nostra chiesa sia matura per questo passo. Ma, se lo fosse, si proporrebbe di dedicare al suo Signore il «Santo Volto» prima di aver imparato a riconoscerLo nei più deboli e disprezzati? E quando avesse imparato a riconoscerLo, gli costruirebbe un tempio o si impegnerebbe anima e corpo per accoglierLo e dargli voce, accogliendo e dando voce ai più diseredati e privi di identità tra i Suoi figli e fratelli?

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