La “conversione” di Fini

Una carriera coerente

Vera o opportunistica?


Nel 1971 un diciannovenne studente si iscrive a un partito che dal 1946 si proponeva, già nel nome (Msi), come erede della Rsi. Il capo di quel partito, Giorgio Almirante, era stato segretario di redazione della «Difesa della Razza», la rivista che nell’estate 1938 aveva anticipato la promulgazione delle leggi razziali. Dopo l’8 settembre si era arruolato nella Gnr, per poi diventare capo di gabinetto del Minculpop della Rsi e tenente delle Brigate Nere nella repressione antipartigiana nell’Ossola. Membri e dirigenti del Msi avevano avuto responsabilità dirette nell’operato della Rsi, agli ordini dei nazisti nelle operazioni militari e nell’attuazione della «soluzione finale del problema ebraico».

Tutto ciò non turba la coscienza del nostro giovane, che percorre una prestigiosa carriera senza evidenti contrasti col suo maestro e capo. Questi lo nomina segretario nazionale del Fronte della gioventù missina nel 1977, e a Predappio egli marcia impettito al suo fianco a celebrare il centenario di Mussolini. Nel 1987 Almirante lo presenta come suo delfino alla festa del Msi di Mirabello, e lo sostiene fino a condurlo l’anno dopo alla segreteria nazionale. «Il Msi, l’intero Msi rivendica fermissimamente il proprio diritto di esistere e di riferirsi al fascismo», proclama il neosegretario il 24 gennaio 1988. Pochi mesi dopo Almirante muore, e lui lo saluta come «un grande italiano, un uomo che ci ha consegnato quella Idea, quella bandiera, quell’Onore» (23.5.1988). Il nostro giovane percorre la sua carriera con alterne vicende, amministrando l’eredità ideale di Almirante: «Credo ancora nel fascismo, sì, ci credo» (19.8.1989); «Nessuno può chiederci abiure della nostra matrice fascista» («Il Giornale», 5.1.1990).

Rinvigorito dalla riconquista della segreteria del Msi strappata a Pino Rauti nel 1991, ora rivendica l’autonomia del suo pensiero: «Il delfino di Almirante ha imparato a nuotare» («Il Giorno», 8.7.1991). Ne dà subito prova lanciando un cameratesco saluto ai combattenti della Decima Mas (7.5.1992) e ribadendo che «Mussolini è stato il più grande statista nel secolo. E se vivesse oggi, garantirebbe la libertà degli italiani» (30.9.1992) e «a lui saranno intitolate piazze e monumenti» («Il Giornale» 19.10.1992). Considerando le leggi razziali fasciste, avverte tuttavia un momento di titubanza, subito brillantemente risolto: «Le leggi razziali del fascismo furono un errore che determinò anche orrori. Lo stesso Mussolini era consapevole dell’errore, tanto che non le applicò» (30.9.1992).

A partire dal 1994 (l’anno del primo governo Berlusconi, con cinque ministri ex-missini) il nostro protagonista matura una profonda crisi di coscienza. E ora ci confessa di «aver cambiato idea», come se il giudizio morale sul fascismo e sulla shoa fossero temi opinabili su cui si possono avere diverse e intercambiabili opinioni. Ha vissuto vent’anni e più della sua vita politica sostenendo i fautori delle «infami leggi razziali volute dal fascismo», ha lavorato per vent’anni a gomito a gomito con uomini del «male assoluto» – sono parole sue pronunciate oggi in Israele. Poi ha capito, e la sua coscienza lo ha portato a ripercorrere i luoghi della memoria del male assoluto: le Fosse Ardeatine, Auschwitz, Yad Vashem. Solo, con il tormento della sua coscienza, e con pochi giornalisti, fotografi e telecamere al seguito. Di fronte a una crisi così lunga e sofferta, ci saremmo tutti aspettati una decisione di suprema coerenza: l’abbandono della vita politica dopo un errore così grave e prolungato, e il ritiro nella meditazione e nello studio di quei fatti tragici tanto a lungo ignorati. Invece no.

Gianfranco Accattino

Le citazioni di Fini sono tratte da Il fascista del Duemila di Corrado De Cesare, Kaos 1995. Quando non è indicata la fonte, si tratta del quotidiano «Il secolo d’Italia


È credibile che una persona, in particolare un uomo politico, cambi idea? I cambiamenti possono essere dettati da puro opportunismo, ma non possiamo escludere un’autentica conversione.

Prendiamo il caso di Cossutta, per un paio di decenni strenuo difensore dei sovietici. Ricordo di aver partecipato, il 24 febbraio 1989, a un’affollata assemblea e di avere preso la parola denunciando le aggressioni sovietiche in Ungheria, Cecoslovacchia ed Afghanistan. Cito da il foglio 161: «La platea, composta in gran parte da appartenenti
all’ala cossuttiana del Pci (la manifestazione era sponsorizzata da «Interstampa» e «Mondo Nuovo») insorge accusandomi di essere poco documentato e di definire “aggressione” quello che invece è un aiuto ad un popolo in difficoltà».

Secondo una precisa documentazione di Nanni Salio (Il potere della nonviolenza, Ega 1995, p. 117) «i paesi comunisti figurano tra quelli che hanno commesso il maggior numero di democidi in assoluto, e anche in percentuale rispetto alla popolazione». Per «democidi» si intendono genocidi, omicidi politici, esecuzioni di massa, deportazioni, esclusi i morti in guerra. La cifra riguardante i paesi comunisti si aggirerebbe sui 110 milioni, su un totale di 170 milioni. Dunque anche per Cossutta la conversione è stata qualcosa di traumatico. Dubitiamo anche di Cossutta?

C’è piuttosto da osservare il fatto che Sharon è uno dei principali leader mondiali di una destra intransigente e priva di scrupoli. Per un politico intelligente e spregiudicato come Fini, è importante che Sharon sia ebreo? Ebreo o cristiano, scandinavo o africano, buddista o islamico, purché sia di destra, purché serva alla carriera politica di Fini. Roma val bene una Canossa. Solo in questa prospettiva possiamo domandarci quale significato possa avere la “conversione” di Fini.

Dario Oitana

 


 
 
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