IL CASO PARMALAT
Controlli? Non bastano


Si dice: ma il caso Parmalat è una roba tutta italiana, una megatruffa alla Totò che solo il «genio» italico poteva architettare. È una storia di copia-incolla, di carte falsificate al computer e bilanci truccatissimi. È il solito capitalismo familiare, antico male del nostro paese, che non sa stare al passo con i tempi e che, venuto meno l’ombrello protettivo della svalutazione, nell’epoca dell’euro e del mercato sempre più globalizzato, mostra le sue vistose crepe. Rafforziamo i controlli, introduciamo regole nuove e tutto filerà liscio. Sacrosanto. C’è bisogno di consiglieri d’amministrazione indipendenti, di revisori dei conti che non si addormentino sui libri contabili e di società di certificazione che passino al setaccio ogni virgola dei bilanci.

Ma la faccenda si chiude così? La diagnosi, con terapia annessa, ci appare insufficiente. Ciò che è successo a Collecchio è soprattutto l’ennesima stortura di un sistema che, da diversi anni, ha stravolto la concezione dell’impresa. L’imperativo di fondo è «creare valore per gli azionisti». Tutto si gioca attorno a questa locuzione che potremmo tradurre così: chi investe in un’azienda – chi acquista le sue azioni – vuole guadagnare un sacco di soldi e vuole farlo in poco tempo. Non parliamo certo del sig. Rossi che ha acquistato quattro azioni in croce perché glielo ha consigliato l’amico del cugino di un suo collega di lavoro. O meglio, il sig. Rossi questo sogno ce l’avrebbe, ma non ha nessuna voce in capitolo. I veri padroni del gioco sono gli investitori istituzionali: fondi pensione, fondi d’investimento, compagnie di assicurazione. Loro fanno e disfanno, e se il business non li soddisfa vanno a pascolare da qualche altra parte.

Un tempo il rendimento era legato ai dividenti distribuiti, cioè al profitto derivante dalla produzione di beni e servizi. Costruisco automobili, mi costano 100, le vendo a 200 e la differenza è il mio utile, che in parte reinvesto nell’azienda e in parte attribuisco agli azionisti. Oggi questo meccanismo è insufficiente a soddisfare certi appetiti, perché «creare valore» significa alzare a dismisura la quotazione in borsa delle azioni e per farlo è necessario lanciarsi in operazioni che generino redditi molto più elevati – e in breve tempo – di quanto possa fare la semplice produzione. Ecco allora l’armamentario ampiamente descritto in questi giorni da televisioni e giornali, nel quale troviamo le operazioni dai nomi misteriosi (derivati, futures), la finanza creativa, i paradisi fiscali e societari e altri mirabolanti marchingegni che quando saltano, però, fanno un botto micidiale. Siamo arrivati allo snodo fondamentale: le imprese che si buttano in improvvide avventure finanziarie a discapito della produzione. È su questo che occorre una riflessione generale, che dovrebbe investire in primo luogo il mondo politico e quello dell’economia. Quando un’azienda dimentica di fare bene il proprio mestiere – creare occupazione, profitti solidi e buoni prodotti – e s’inoltra in terreni impropri, il risultato si chiama Parmalat. O la Fiat di Fresco.

Fausto Caffarelli


 
 
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