Editoriale
 

La violenza sessuale non è mai segnale di una vicenda boccaccesca, e quando c’è di mezzo una bambina, insidiata da un giovane prete, è sempre indice di un dramma. L’hanno dimenticato il direttore e i giornalisti de «La Stampa», che, tartufescamente riparandosi dietro il diritto di cronaca, hanno trasformato il caso tristissimo delle attenzioni morbose del parroco di Castagnole Piemonte verso una sua parrocchiana di dieci anni in una farsa pornografica. Ma l’hanno dimenticato anche il cardinal Poletto e il corsivista de «La voce del popolo», che si sono limitati l’uno a uno scarno comunicato di fiducia nella serietà del clero diocesano e dell’operare della magistratura, l’altro all’invito, pur doveroso, alla pietà verso il fratello che ha sbagliato.

Non una parola sulla bambina, che come tutte le vittime di violenza, sessuale e no, viene prima colpita dal persecutore e poi ferita dal bisogno di scandalo dei vendicatori del colpevole. Non una parola sulla solitudine affettiva e umana in cui la nostra chiesa lascia i preti, dopo averli sommariamente formati e sbattuti a fare i conti coi problemi umani e spirituali di comunità sempre più disgregate e disorientate.

Certo il caso in questione è prima di tutto frutto di una vita intimamente tormentata e di una personalità che non ha raggiunto il pieno equilibrio e la piena maturità. Le responsabilità del reo confesso sono responsabilità sue, che nessuno può addebitare ad altri. Ma le responsabilità di chi lo ha considerato adatto al ministero, di chi ha deciso che alla storia tragica di un orfano, cresciuto nella desolazione del duplice abbandono per morte dei genitori naturali e di quelli affettivi, poteva essere aggiunto il carico di un celibato assoluto e perpetuo, chi se la assume?

Sia chiaro. Non cerchiamo altri colpevoli da crocifiggere con parole impietose e neppure pensiamo che, tolto il celibato obbligatorio dei preti, si eviterebbero i rischi di simili deviazioni: la pedofilia infatti ha cause e ragioni ben più profonde. Segnaliamo che sarebbe giusto che nella nostra chiesa e sul suo settimanale diocesano si aprisse una riflessione sulla solitudine non solo affettiva dei preti e ci si interrogasse sui metodi della loro formazione, che ci sembra ancora troppo individualista e scarsamente comunitaria.

Il papa, da più parti premuto dalle denunce di casi di pedofilia di preti e religiosi, ha chiesto una più attenta formazione alla castità e al celibato. Qualcosa certo l’educazione può fare anche in questo campo, se c’è la vocazione e la libertà di scelta. Ma puntare sull’educazione come via per convincere al celibato è fuori di ogni buon ordine creaturale. Non si può educare nessuno a comportamenti che esulano dalla normalità dell’agire naturale. Solo a questo può mirare un’educazione e una formazione sana.

Ma tutto ciò non basta ancora. La scelta da parte del giovane parroco di Castagnole di orientare i suoi bisogni sessuali e affettivi verso una bambina e non verso una donna, capace di risposta adulta e libera, il silenzio del corsivo curiale sul dramma della bambina coinvolta, la dicono lunga sul modo in cui ancora nella formazione seminariale è vissuto il rapporto con la donna. Anche su questo è necessario che la nostra chiesa rifletta, su come la legge del celibato obbligatorio dei preti la ferisca nella sua stessa unità profonda, nella potenzialità di dialogo con la metà femminile del suo cielo, nell’ incapacità di aprirsi e di valorizzare appieno la ricchezza spirituale e umana del laicato, delle famiglie e, in particolar modo, delle donne, che peraltro sono ormai in essa la maggioranza.

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