BOSNIA-ITALIA |
Emir: una favola, vera |
Il 6 luglio del 2000 mi chiama un amico da Sarajevo, dove sta portando avanti un progetto con Comune di Torino e la ong Rete. Mi segnala l’esistenza di un ragazzino bosniaco tredicenne malato terminale per una leucemia mieloblastica acuta: a Sarajevo hanno gettato la spugna, continuano con la chemioterapia che però non dà risultati; il medico che lo segue gli dà 10 giorni di vita. Il mio amico mi invia la cartella clinica che faccio tradurre e sottopongo ad una amica ematologa: questa mi conferma la diagnosi e l’estrema urgenza per tentare un trapianto. Con la mia associazione (Collettivo Azione Pace www.caponlus.org) ci buttiamo a bussare a tutte le porte. Una ragazza del nostro gruppo è laureanda in medicina con una tesi in oncologia pediatrica con il prof. Madon, primario del reparto. Gli sottopone il caso e Madon conferma la possibilità di un trapianto e la disponibilità del reparto a farsene carico dal punto di vista delle cure, se si fa in tempo e se si trova il donatore. Per ottenere il visto di ingresso in Italia è indispensabile avere la copertura finaziaria delle cure: 500 milioni delle allora nostre lire. Cominciamo a lanciare allarmi e richieste di aiuto da tutte le parti: ormai sappiamo che il ragazzino si chiama Emir e non è più uno dei tanti sconosciuti; e non siamo quindi capaci di rimanere impotenti di fronte alla sua morte dovuta al crollo della sanità in quel fantastico paese distrutto dalla guerra. Si fanno pressioni di tutti i generi, il direttore del Regina Margherita promette, ma non si decide a firmare il foglio di assunzione del carico economico delle cure. Il console non si smuove. Passano i giorni; alla fine dopo pressioni “persuasive” il direttore generale dell’ospedale firma il foglio: siamo al sesto dei 10 giorni accordati in appello dalla sorte al ragazzino. L’amico a Sarajevo si precipita in consolato: è martedì e il console, in un momento di umanità, ha aspettato contro la normale prassi (in genere se ne va alle 16 del pomeriggio): finalmente il visto viene firmato. L’amico carica sul suo Ulisse Emir con babbo e mamma e parte nella sera alla volta di Torino: Bosnia, Croazia, Slovenia, Italia. Noi siamo qui con lo stomaco legato: un viaggio di più di mille chilometri in corsa contro il tempo, con un ragazzino moribondo e nessuno che gli possa dare il cambio alla guida. Emir arriva a Torino alle 9 del 12 luglio: è alto meno di 1,60, è l’unico in famiglia a parlare un poco inglese e, una volta tornato in Bosnia il nostro amico, è l’unico contatto tra questo mondo incomprensibile e pauroso che gli sta intorno adesso e la sua famiglia. Ci attiviamo per sostenere questa nuova e difficile situazione, cerchiamo interpreti, si impara lentamente qualche parola di bosniaco, si impara il liguaggio non verbale. Emir sarà trapiantato il 12 ottobre con il midollo di suo fratello. I tempi che lo aspettano sono pesantissimi, ma la sua volontà di guarire è grande. A giugno darà l’esame di terza media in Italia e tornerà per qualche giorno in Bosnia per dare l’esame di fine anno anche nella sua scuola: sarà il primo in assoluto! Torna in Bosnia alla fine delle cure esattamente un anno dopo il suo arrivo, il 12 luglio 2001. Oggi, 9 febbraio, Emir è a Torino per uno dei suoi tanti controlli: ha compiuto da pochi giorni 17 anni, è alto 1,85, porta 45 di scarpe, frequenta il terzo anno del liceo classico (in Bosnia dura 4 anni) ed è sempre il primo della classe. Parla correntemente italiano, inglese, tedesco e ovviamente bosniaco. Ha ricominciato a giocare al calcio, corre dietro le ragazzine, fa il muso come gli adolescenti, sogna di fare l’università in Italia perché la laurea al suo paese non è riconosciuta all’estero. Questa sera giocherà con noi la sua prima partita di calcio contro gli italiani che lo hanno aiutato. Per me è un figlio in più. Paola Merlo |